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Nutrizione

Lo chef e la guerra cellulare

Lo chef e la guerra cellulare

di Daniela Condorelli

(da “Dweb – La Repubblica delle donne” del 31 gennaio 2009)


Come fa il cibo ad allontanare il cancro? Perché alcune sostanze si comportano come killer e altre invece ci proteggono? Un corso di cucina lo spiega e insegna a cambiare menu.

 

Nel 2009 dieci milioni di persone si ammaleranno di cancro. Almeno tre milioni avrebbero potuto evitarlo. Sarebbe bastato un buon corso di cucina. Che spegnere la sigaretta salvi da nove tumori del polmone su dieci lo sanno tutti, anche se non tutti la spengono. Ma non tutti sanno che, a tavola, può cambiare il destino. Si salvano tre milioni su dieci. Uno su tre. Cinico? Statisticamente discutibile? Nessuno mi darà mai la garanzia che non mi ammalerò. Ma uno su tre, in tema di cancro, è un'immensità. Chi vorrebbe sapersi artefice della propria malattia o di quella dei propri figli? Basta cambiare menu. (...)

L'articolo: http://dweb.repubblica.it/dettaglio/lo-chef-e-la-guerra-cellulare/56448?page=1

 

 










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UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

Una mai debellata epidemia si espande nelle nostre società: l'incapacità di ragionare con il proprio cervello.

 

 

Quanto è pazzo, pazzo, pazzo questo nostro mondo!

 

Sempre più spaccato in due grandi emisferi contrapposti, contrastanti manifestazioni della dualità dell'essere umano che lo abita. Un Giano bi-fronte che ha di fronte a sé il futuro tecnologico sempre più a portata di mano ma che usa per le sue scelte, spesso assai poco consapevoli, i meccanismi ancestrali di un cervello di cui ignoriamo quasi completamente il funzionamento.

Come spiegare altrimenti i paradossi della società di massa, di questo mondo sempre più globalizzato culturalmente, per non dire plagiato commercialmente?

Recentemente vittima di quello straordinario meccanismo mentale che qualcuno chiama "isteria collettiva", "disturbo sociogenico di massa - mass sociogenic illness" o "effetto nocebo" è stata una delle società che forse più di tutte ha fatto della massificazione commerciale la sua filosofia di espansione: la Coca Cola.

A sostenerlo è uno studio dell'Università Cattolica di Lovanio che, per conto del governo belga, ha condotto un'indagine tossicologica volta a chiarire lo scandalo che ha coinvolto l'estate scorsa la multinazionale americana in Belgio: dunque, nessuna intossicazione, malori inesistenti, solo disturbi di origine psicosomatica per centinaia di persone in Belgio e Francia!

Il gruppo di ricercatori hanno illustrato le conclusioni del loro lavoro in una lettera pubblicata dall'autorevole rivista medica "The Lancet": i malesseri lamentati dai ragazzi non sono dovuti ad alcuna intossicazione riconducibile all'assunzione della bevanda. Trattasi, invece, di una reazione psicosomatica favorita dall'allarmismo dei mezzi di informazione e da una situazione di sfiducia complessiva in un Paese "sconvolto" dall'emergenza alimentare della diossina.

Secondo i ricercatori l'analisi condotta sulle bibite ha evidenziato sì un'alterazione dell'anidride carbonica e la presenza di un fungicida, ma in quantità assolutamente innocua! L'unico piccolo, trascurabile effetto (difetto?) che avrebbero prodotto queste alterazioni, è l'aver generato un odore nauseabondo tale da rendere la bibita quasi imbevibile. E basta!

Il resto è stata opera dei mass media (che, forse, la Coca Cola citerà per danni, chiedendo indennizzi multimiliardari), dell'ansia prodotta dalla diossina (forse è per questo che è così pericolosa, la diossina!) e, in qualche misura, anche dall'atteggiamento "reticente" della multinazionale di Atlanta nei primi giorni della crisi.

Ma analizziamo con ordine i fatti.

 

"Nessuna evidenza clinica o di laboratorio"

"La ragione per pensare che i ragazzi non erano in realtà stati avvelenati dalla Coca Cola - spiega al quotidiano italiano "Il Sole -24 Ore", il prof. Benoit Nemery, docente all'Università di Lovanio e coordinatore dell'indagine - è che non sono state trovate evidenze cliniche o di laboratorio che attestino l'evento (i loro sintomi erano assai deboli) e comunque non sono stati trovati agenti tossici capaci di spiegarli. Questo in realtà non significa che non sia successo nulla. Nella scuola dove si sono verificati i primi casi, molto probabilmente c'era qualcosa che non andava, la Coca Cola aveva cioé un cattivo gusto o un cattivo odore. Però, sono fermamente convinto che i ragazzi sono stati ricoverati solo perché "allarmati" in un contesto dove la crisi causata dalla diossina e l'ansia dovuta alla salubrità dei cibi, non lasciava scelta ai medici che hanno preferito non correre rischi".

Anche se la Coca Cola non ha rilasciato commenti sulla ricerca questa versione dei fatti "scagiona" in un certo senso l'azienda che, tra ritiro precauzionale dei prodotti e spese di comunicazione, ha speso circa 160 miliardi di lire.

Sul banco degli accusati sembrano ora restare solo i mezzi di comunicazione...

 

Un terremoto mediatico

I media infatti possono facilmente innescare una crisi o aumentarne la "magnitudo", quasi fosse un vero e proprio terremoto.

A seconda dei fattori che scatenano la crisi e la tipologia, si può costruire una sorta di "Scala Mercalli" della comunicazione:

- un primo livello, di natura tecnologica (quasi asettico, trascurabile apparentemente o forse risolvibile grazie allo stesso apparato tecnologico che ha causato il danno);

- un secondo livello, infrastrutturale;

- un terzo che coinvolge i fattori umani (siamo già ad un livello pericoloso);

- il quarto livello, che coinvolge la sfera culturale degli individui;

- ed, infine, il quinto livello, il più critico, allorchè viene intaccata la sfera emotiva e che può causare quei ben noti stati di vero e proprio "shock emotivo".

Secondo gli esperti, quanto più i messaggi che derivano da uno stato di crisi hanno connotati che interagiscono con la sfera emotiva dei consumatori, tanto maggiori sono l'impatto di una crisi e i suoi effetti negativi nel tempo.

La variabile che più genera stati di panico collettivi sembra essere la velocità dei flussi di informazione: secondo alcuni esperti di "crisis management" (divenuti sempre più necessari per le aziende in difficoltà) la "pressione mediatica" nel momento dell'emergenza è tale da costituire una sorta di "problema nel problema" che richiede un'attenta gestione.

Tra gli esperti non sono pochi quelli che, vista la mancanza di tempo "giornalistico" per andare alla ricerca della verità, suggeriscono alle aziende di assumersi la responsabilità e le colpe, anche quando non ci sono.

Ma, nei corsi di formazione per esperti di crisis management, viene studiato e preso come esempio di "emergenza evitata" il caso di tempestivo intervento di un'azienda, coinvolta in un caso di intossicazione alimentare, che riuscì abilmente a sottrarre dalla cassa di risonanza dei media l'incidente, salvandosi così dal boicottaggio dei consumatori, per poi chiarire con un'inchiesta interna, le cause dei malesseri non proprio psicosomatici accusati da cinque suoi clienti.

Ma allora, come comportarsi? Si fa ma non si dice? Oppure si dice ma non si fa?

 

Elogio della trasparenza

Nel mondo iperuranico dell'alta finanza tutti spergiurano che è "meglio parlare che tacere": questa sembra essere la "regola base" dei rapporti tra società quotate in Borsa e investitori finanziari, regola cha vale sempre (o quasi) soprattutto in caso di crisi.

Allorquando si verifica un evento straordinario che minaccia di influire sui bilanci di un azienda e/o sull'andamento del titolo, se questa è quotata in borsa, è bene che il mercato sappia con tempestività qual'è il danno, le sue dimensioni e le misure che il management intende adottare per fronteggiarlo.

Fornire al mercato tutte le informazioni necessarie: questo dovrebbe essere, per gli esperti di comunicazione, il comportamento più sensato che un'impresa dovrebbe assumere nella gestione delle emergenze.

Se così non è, se non arrivano puntualizzazioni sollecite ed esaurienti o se il mercato ha la sensazione che la società si comporti in modo poco trasparente, si formano opinioni deviate, viene meno la fiducia e ciò può avere pesanti ripercussioni sulle quotazioni del titolo che può addirittura finire sospeso per eccesso di ribasso.

Questo "dovere di informazione" (sulla cui veridicità, poi, si può anche discutere) verso il pubblico diventa però un obbligo verso gli azionisti: il passaggio chiave è spiegare alla platea degli investitori come si intende affrontare il problema che si è creato, quali strategie d'intervento ha il management e i risultati che si presumono di ottenere.

Fondamentale in questo senso è la scelta del chi comunicherà, a chi e come.

 

Il cliente ha sempre ragione?

C'era una volta... un tempo in cui si diceva che "il cliente ha sempre ragione". Questo vecchio adagio in campo commerciale viene sempre più stravolto puntando ad un guadagno immediato, alla conquista di nuovi mercati.

Nella casistica della litigiosità che contrappone sempre più spesso aziende e consumatori non è in discussione tanto la qualità dei prodotti ma piuttosto la qualità del servizio al cliente.

In questo senso molte imprese manifestano un vero e proprio deficit di comunicazione di fronte alle rimostranze del consumatore insoddisfatto: di fronte alla richiesta di spiegazioni, chiarimenti o in merito a precise contestazioni su fatti specifici a banche, produttori automobilistici, aziende di telecomunicazioni, assicurazioni, ecc. si assiste spesso all'applicazione di una strategia tristemente nota, anche ai non addetti ai lavori, come "muro di gomma".

Di fronte a ciò i cittadini, da soli o con il supporto delle associazioni dei consumatori, ricorrono sempre più spesso alla denuncia presso i mezzi di informazione (giornali, radio e televisione) e , in particolare, a quelle (rare) trasmissioni dedicate alla denuncia, al contraddittorio, ad un autentico confronto tra utente e aziende, pubbliche o private che siano.

La televisione, da un lato, è probabilmente il veicolo pubblicitario più accattivante per le grandi marche che, tramite le ingenti risorse finanziarie investite in questo mezzo, ne influenzano (se non ne determinano radicalmente) palinsesti e scelte editoriali.

Sulla base di questo rapporto le imprese, in un certo senso si sentono in diritto di avere una sorta di "trattamento di favore" tendente a minimizzare l'audience nel momento in cui notizie negative vengono a danneggiare l'immagine di un loro prodotto.

D'altra parte, la componente giornalistica dei media, richiamandosi alla libertà di informazione e all'etica professionale, ha tutto il diritto e il dovere di informare il pubblico sugli eventuali problemi che si possono verificare con i prodotti che acquistano.

Il rapporto tra queste due "anime" dell'informazione è generalmente regolato da oliati meccanismi di equilibrio basati sulla diffusione delle informazioni:

- dalle aziende verso l'interno delle redazioni attraverso l'uso di appropriati uffici stampa (che, conoscendo i meccanismi giornalistici, sanno come veicolare al meglio il messaggio);

- da parte dei media verso l'esterno solo in presenza di fatti oggettivi (interventi dell'autorità giudiziaria; grande rilevanza dell'evento per il pubblico, come nel caso delle presunte intossicazioni da Coca Cola di cui sopra).

I programmi di denuncia e/o di servizio all'utente rappresentano in molti casi una sorta di spina nel fianco per le aziende che non amano certo lavare i propri panni sporchi davanti ad un pubblico di milioni di persone.

Ecco quindi che il portavoce aziendale, nel caso l'azienda decida di partecipare al contraddittorio, dev'essere in grado sia di sostenere le argomentazioni più efficaci per convincere il pubblico televisivo della buona fede della società che rappresenta, sia di saperlo fare negli strettissimi tempi televisivi dove contano semplicità, chiarezza e comunicatività.

 

Concludendo...

Sia che si tratti di "effetto placebo" o di "effetto nocebo", resta il fatto che sempre di più l'umanità sembra in balia di condizionamenti mentali che ne inducono comportamenti caratterizzati da profonda incoscienza.

L'acquisto di oggetti, servizi e quant'altro ci prometta l'immedesimazione in un "modello" (di uomo e/o di donna, di lavoro, di vita, di svago, ecc. ecc.) offertoci dalla pubblicità che accompagna quei prodotti ha comunque un effetto temporaneo. Come la bibita di cui sopra, ci placa la sete ma tutto è studiato per farcela rivenire dopo un pò, per perpetuare la nostra dipendenza.

 

 

 

 

 

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BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!

BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!



Le biotecnologie sono prima di tutto un "business"!
Al di là dei nobili fini che la ricerca scientifica applicata si pone per la risoluzione di alcuni tra i problemi più gravi che affliggono l'umanità (la fame, le malattie, l'inquinamento, ecc.) lo sviluppo delle biotecnologie é, di fatto, uno tra i tanti settori dell'economia (alla stessa stregua di quelli dell'auto, della siderurgia, della componentistica, dell'elettronica, ecc.) sui quali si gioca il confronto tra grandi potenze nazionali e multinazionali, pubbliche e private, per la supremazia dei mercati.
Le aspettative nate fin dalla loro prime applicazioni ne hanno evidenziato immediatamente le ricadute economiche e le legislazioni nazionali ed il diritto internazionale hanno cercato di adeguarsi, nei tempi più brevi possibili, alla pressante richiesta da parte sia del mondo scientifico di sperimentare su vasta scala i risultati dell'applicazione delle tecnologie genetiche che di quello produttivo di "brevettare" i nuovi prodotti per assicurarsi così l'esclusiva dello sfruttamento commerciale.
La legislazione sia a livello nazionale che internazionale deve anche tener conto delle potenziali ripercussioni negative della diffusione dei prodotti delle biotecnologie, ripercussioni che non sono solo ecologiche ma anche politiche e sociali.


Biotecnologie e fame nel mondo

Uno dei "cavalli da battaglia" preferiti dei sostenitori delle biotecnologie è la loro indispensabilità nel risolvere l'annoso problema della fame nel mondo.
Ma quale nazione del Terzo Mondo potrebbe permettersi il lusso di acquistare sementi del superpomodoro che non marcisce (finora l'unica creatura commestibile dell'ingegneria genetica, in vendita da poco tempo nei supermercati americani ad un prezzo dalle 2 alle 3 volte superiore a quello dei comuni ortaggi)?
Eppure gli obiettivi della ricerca della nazione leader nella ricerca biotecnologica sono quelli di far arrivare sul mercato entro i prossimi 6 anni almeno 50 nuovi prodotti biotecnologici tra cui olii meno grassi, cereali più proteici, ostriche più appetitose, arance che non gelano, patate che assorbono meno olio e carote più croccanti!
Prodotti ad alto valore aggiunto, elaborati per lo più a fini dietetici e "cosmetici", finalizzati ad un consumatore "pigro", poco disposto a cambiare nocive abitudini alimentari e di vita e più propenso piuttosto a cambiare prodotto.
Gli svantaggi per i Paesi in via di sviluppo potrebbero essere non solo quelli legati allo sfruttamento da parte di paesi "biotecnologicamente forti" delle risorse genetiche del Terzo Mondo per la creazione di prodotti ingegnerizzati ma anche quelli legati al rischio che tali prodotti "ingegnerizzati" scaccino dal mercato quelli naturali (così come avvenuto per lo zucchero, il burro di cacao ed alcuni tipi di olii), facendo così diminuire le entrate già scarse di valuta pregiata.
In una recente rassegna sullo "stato dell'arte biotecnologica" nei Paesi in via di sviluppo (Sasson, 1989) si evidenziava la necessità, per questi Paesi, soprattutto di formazione e di educazione in questo campo più che di prodotti bioingegnerizzati, nonchè di incrementi negli investimenti pubblici e privati per attivare "in situ" laboratori e centri di ricerca.
Nei fatti si assiste però al paradosso che i geni estratti da organismi provenienti da Paesi in via di sviluppo vengono modificati, inseriti in specie ospiti per migliorare il loro rendimento e garantirsi un brevetto ed, infine, rivenduti a caro prezzo agli agricoltori di quegli stessi Paesi che quella ricchezza biologica hanno contribuito a mantenere (Shand, 1993).


Le tre generazioni

Con le biotecnologie di "prima generazione" si è riusciti ad indurre i batteri a produrre particolari molecole medicinali (la somatostatina, l'ormone dell'accrescimento umano, l'interferone, la relaxina, ecc.), per lo più materiale farmaceutico coperto da brevetti soprattutto americani, inglesi, tedeschi e francesi.
Successivamente, con le biotecnologie di "seconda generazione" i geni (segmenti di DNA che codificano polipeptidi e proteine) sono stati manipolati (tagliati, ricuciti, introdotti, trasferiti) in modo da modificare specifiche caratteristiche di piante e animali: sono nate così alcune varietà vegetali che posseggono la resistenza a specifici insetti o ad altri patogeni.
Oggi, oltre a migliorare tali tecniche ed estenderne la diffusione, stanno nascendo le biotecnologie di terza generazione: si inducono le piante a produrre molecole che mai avrebbero sintetizzato nel loro organismo, perchŠ codificate solamente nei batteri e nell'uomo.
Le prime realizzazioni sono la produzione da parte di piante di colza di leucoencefalina (un'endorfina cerebrale) e dell'albumina del siero umano.
La produzione di BHB, un poliestere utilizzato per la plastica, ottenuto finora grazie al batterio "Alcaligenes eutrophus", da parte di una piccola erbaccia spontanea (la crucifera "Arabidopsis thaliana") apre nuove prospettive all'agricoltura, destinata in  futuro a fungere da sintetizzatrice di molecole per le più varie applicazioni (chimica, medicina, energia, ambiente, ecc.).
Peraltro tale compito non appare nuovo se si pensa all'ancora quasi inesplorata "creatività chimica naturale" che caratterizza il mondo vegetale: si tratterebbe ora di far produrre alle piante anche ciò che producono batteri e uomini.


Nuova agricoltura o vecchi monopoli?

Quanto detto sopra appare certamente ancora una proiezione futura: la manipolazione genetica delle piante, trionfalmente annunciata dieci anni orsono, ha mostrato  di incontrare a tutt'oggi inaspettate  difficoltà anche dal punto di vista tecnico oltre che giuridico.
E ciò malgrado che ad appoggiare e ad esercitare talvolta in proprio l'arte manipolativa non ci fossero ricercatori pivellini e compagnie sprovvedute.
Fin dalle origini la ricerca biotecnologica è stata condotta dalle più grosse multinazionali della chimica e della farmaceutica con l'appoggio dalle migliori università del mondo.
Nel settore agricolo la chimica tradizionale, dopo un paio di secoli di "lotta" contro i sistemi naturali, ha però lasciato insoluti ancora diversi "problemini"...
La vendita associata di semi + erbicida (sementi selezionate e ingegnerizzate per la resistenza ad uno specifico erbicida, venduto dalla stessa ditta) promette agli agricoltori la certezza di liberarsi per sempre di uno dei primcipali nemici delle colture: le erbacce infestanti.
Altri nemici giurati dei coltivatori sono gli insetti: una delle più grandi multinazionali è riuscita ad introdurre un gene del batterio "Bacillus thuringiensis" nel seme di mais ottenendo così il primo granturco "ingegnerizzato" per la resistenza ad un insetto, le cui piante sviluppano  una proteina in grado di contrastare l'azione di un parassita - la piralide - causa di perdite sul raccolto annuale che possono incidere fino al 20% della produzione.
La ricerca ferve anche nel campo della difesa delle piante dall'attacco dei virus, responsabili di riduzioni del 25-35% del raccolto in modo particolare nelle Solanacee (pomodoro, patata, tabacco). Oltre alle tecnologie di micropropagazione (coltura degli apici vegetativi in vitro) in grado di ottenere piante esenti da virus, sono stati individuati due approcci genetici al problema: a) selezionare piante contenenti geni che consentano un'efficace resistenza all'attacco virale; b) produrre piante transgeniche in cui la resistenza ai virus viene indotta mediante inserimento nel patrimonio genetico vegetale dei geni responsabili della produzione dell'involucro proteico dello stesso virus.
Ma anche in questo caso siamo ancora ad un livello sperimentale: la commercializzazione su larga scala di queste nuove sementi attende però più approfondite prove in campo ed il completamento dei processi di autorizzazione alla vendita da parte delle competenti autorità.
L'enfasi sui "miracolosi effetti" e le aspettative in un rapido diffondersi dei prodotti delle biotecnologie vanno dunque temperate: la manipolazione di un organismo "primitivo" come una pianta (se confrontata con un animale o addirittura con l'uomo) per farlo adattare ad un composto chimico artificiale - per giunta, tossico per i delicati meccanismi biochimici delle cellule - oppure all'ingresso di un gene batterico, è tutt'altro che semplice.
Del resto la storia delle realizzazioni dell'ingegneria genetica in campo agricolo è finora costellata di pochi successi e più frequentemente di piccole ma significative acquisizioni soprattutto nell'esplorazione degli affascinanti misteri dei genomi di virus, batteri, vegetali ed animali.


Biotecnologie buone o cattive?

Spesso nei confronti di una nuova scoperta scientifica o di una applicazione tecnologica si attua una vera e propria battaglia da parte di schieramenti contrapposti che fanno di tutto per celebrarne gli aspetti positivi o per demonizzarne quelli negativi.
Anche in questo caso e forse più che per altre innovazioni, alte si sono levate le grida tra chi sostiene che le biotecnologie potranno risolvere gran parte dei problemi che attanagliano oggi l'umanità (fame, malattie, crisi energetica, produzione di rifiuti, degradazione dell'ambiente, ecc.) mentre i detrattori ne paventano tutti i rischi collegati alla manipolazione del patrimonio genetico di una specie, anche fosse di un microscopico batterio.
E' peraltro indubbio che senza adeguate precauzioni e stante le ancora immense lacune sulla conoscenza dei sistemi biologici la manipolazione genetica potrebbe generare situazioni di non facile gestione, soprattutto considerando le conseguenze ecologiche ed epidemiologiche che potrebbere derivare dal rilascio voluto o accidentale nella biosfera di organismi geneticamente alterati che, tra l'altro, non possono essere ritirati dal mercato come qualsiasi altro prodotto "difettoso".
Ecco che quindi l'allargamento dei "detentori di know how" biotecnologico potrebbe rappresentare un rischio reale laddove la ricerca e le applicazioni non seguissero i codici deontologici che le scienze biologiche hanno messo "a guardia" di ogni ricercatore.
Una delle preoccupazioni maggiori è che il controllo e la regolamentazione pubblica si riducono via via che il settore diventa sempre più privato e più concentrato in mano ai grandi colossi transnazionali dell'agrochimica, della farmaceutica e dell'alimentare.
Il grande business che vi è dietro le biotecnologie ha come principale obiettivo il profitto che, si sa, non è sinonimo di etica.
La pressante richiesta da parte delle multinazionali di avere un sistema unificato di brevetti che permetta loro di ottenere la proprietà privata delle forme di vita geneticamente modificate
rappresenta per milioni di agricoltori dei Paesi in via di sviluppo uno "shock culturale" in quanto trasforma le risorse biologiche da beni comunitari in merci.


Conclusioni

L'ingegneria genetica si trova quindi a dover affrontare oltre ai problemi più strettamente tecnologici, legati alle ancora scarse conoscenze umane sui sistemi biologici e sulla vita, anche quelli non meno fondamentali dei valori e dei fini che presiedono all'organizzazione sociale, al cambiamento tecnologico e alla definizione delle priorità di sviluppo.
In realtà sarebbe indispensabile che su questi problemi che determineranno il nostro futuro prossimo fossimo tutti informati e attenti: l'uomo di oggi rischia sempre più di essere considerato dal sistema produttivo solo un consumatore acritico di beni e servizi.
L'informazione genetica che le biotecnologie manipolano per migliorare la qualità della vita è un prodotto del nostro tempo; la manipolazione dell'informazione è anch'essa "tecnologia" sofisticata, seppur più "datata", ma dalla quale dovremo sempre più difenderci per assicurare alla nostra vita intellettiva quella libertà di scelta che solo una conoscenza a 360 gradi delle cose può consentirci.


Bibliografia

Sasson A., 1989. Biotechnologies and developing countries: present and future. In: A. Sasson and V. Costarini (Editors), Plant biotechnologies for Developing Countries. Technical Centre for Agriculture and Rural Co-operation and the Food and Agriculture Organisation of the United Nations.

Shand H., 1993. Agbio and Third World Development. Bio/Technology, 11: 513.

Mannion A.M., 1995. Agriculture, environment and biotechnology. In: Agriculture, Ecosystems and Environment 53 (1995) 31-45.

Shiva V., 1995. Monocolture della mente - Biodiversità, biotecnologia e agricoltura "scientifica". Bollati Boringhieri.


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GLOBALIZZIAMO LA SICUREZZA ALIMENTARE !!!

GLOBALIZZIAMO LA SICUREZZA ALIMENTARE !!!

 

Di fronte ai recenti scandali alimentari che hanno interessato alcuni paesi membri (il caso dei polli alla diossina, delle intossicazioni da Coca Cola, della mucca pazza, ecc.) il Presidente della Commissione Europea aveva indicato sin nel suo discorso programmatico dinanzi al Parlamento europeo come una priorità assoluta della nuova Commissione, la sicurezza alimentare.

In quell’occasione Romano Prodi aveva affermato: “Noi come politici e come legislatori abbiamo il dovere, che è anche una responsabilità, di proteggere la salute dei nostri concittadini. E’ nostro preciso obbligo prendere i provvedimenti rapidi e risolutivi che i nostri cittadini reclamano”.

Un sistema di sicurezza alimentare efficace e credibile parte innanzitutto, secondo Prodi, da una corretta informazione circa i contenuti dei prodotti alimentari.

Un’altra priorità indicata riguarda il rafforzamento del sistema di ispezione: “Tutta la catena della produzione alimentare – dal campo alla mensa – dovrebbe essere attentamente e rigorosamente controllata in ogni sua fase in ogni stato membro” .

In questo senso l’attuale sistema che regola le ispezioni alimentari dovrà essere aggiornato e semplificato con l’obiettivo di presentarsi come un insieme unico di regole (attualmente sono più di cento le direttive di base) e di acquisire la necessaria flessibilità in funzione del progredire delle conoscenze scientifiche e tecniche.

Per raggiungere questo scopo già nei mesi scorsi era stata auspicata le costituzione di un’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, garanzia per i consumatori e per ridurre al minimo le tensioni commerciali derivanti dalla incapacità di prendere decisioni in tempi rapidi in un settore così delicato come quello alimentare.

Nei giorni scorsi la Commissione europea ha mantenuto il suo impegno e ha pubblicato un interessante “Libro bianco” che contiene più di 80 proposte di nuove direttive destinate a rivoluzionare l’intero apparato legislativo afferente ai settori agricolo, alimentare e dei mangimi.

 

Trasparenza dai campi alla tavola

Uno dei capisaldi della nuova politica alimentare dell’Unione europea sarà la possibilità per il consumatore di poter conoscere il percorso degli alimenti, dei loro ingredienti e dei mangimi (nel caso dell’allevamento degli animali destinati alla macellazione).

I prodotti di origine vegetale ed animale presentano dei rischi intrinseci dovuti a pratiche fraudolente o alla contaminazione biologica e chimica. Questi possono derivare da prassi non corrette in fase di produzione, di immagazzinamento, di confezionamento, di trasporto e di distribuzione degli alimenti.

Una delle priorità è quella di fissare degli standard europei lungo l’intera catena che va dai prodotti agricoli ai prodotti zootecnici agli alimenti, fino alle tavole dei consumatori.

In questo settore, al momento, sono presenti norme specifiche solo per un certo numero di contaminanti, con diversità di regolamentazione tra i vari paesi.

Per esempio, riguardo all’utilizzo di pesticidi e di medicinali veterinari esistono norme che fissano i limiti massimi di residui consentiti negli alimenti e nei prodotti agricoli, ma i controlli non sono armonizzati ed ogni stato ha delle procedure diverse che creano, di fatto, una disparità di tutela tra i consumatori europei.

Nel caso del Belgio, l’assenza di verifiche interne (buone prassi produttive, verifiche di autocontrollo da parte dei produttori, piani di emergenza) unita alla mancanza di meccanismi per la rintracciabilità dei punti critici hanno consentito che la crisi della diossina si sviluppasse lungo l’intera catena alimentare.

Il documento della Commissione auspica la fissazione di regole volte a disciplinare la responsabilità primaria che sarà condivisa tra tutti gli operatori della filiera alimentare (agricoltore, produttore di mangimi, industria di trasformazione, operatore della logistica e della distribuzione).

I primi responsabili della sicurezza dei cibi rimangono gli operatori del settore alimentare che saranno tenuti, di loro iniziativa, a ridurre al minimo i rischi. Va già in questa direzione il metodo di autocontrollo Haccp (Hazard analysis and critical control points) varato nei processi produttivi di industria, distribuzione e commercio - che consente allo stesso produttore di monitorare i punti critici dal punto di vista igienico-sanitario esistenti nella intera filiera di sua competenza - che ora Bruxelles vorrebbe rendere obbligatorio anche per l’agricoltore, il primo elemento della filiera alimentare, e per il produttore di mangimi.

In quest’ultimo caso verranno definiti i materiali che possono essere usati nella produzione, compresi i sottoprodotti di origine animale. Sarà finalmente vietato l’utilizzo di animali morti e di materiali di scarto nella catena produttiva dei mangimi e verrà individuato un elenco degli altri addittiviconsentiti. Tutte misure per rispondere in modo chiaro all’attuale carenza legislativa (e di coscienza, direi…) che, in alcuni casi, ha caratterizzato negativamente il settore.

Proprio per garantire l’informazione ai consumatori tra le misure proposte sul Libro bianco sul tema “etichette” c’è l’adozione di nuove regole sull’indicazione in esse della composizione, conservazione ed uso dei vari alimenti.

Una nuova disciplina regolamenterà l’etichettatura di additivi, integratori alimentari ed alimenti arricchiti. Verrà eliminata la possibilità prevista dall’attuale normativa di non indicare i componenti o gli ingredienti dei componenti quando questi costituiscano meno del 25% del prodotto finale, garantendo così anche la salute di quei consumatori che devono evitare certi ingredienti (celiaci, diabetici, anziani, bambini, donne in gravidanza, ecc.). Anche per le confezioni di frutta fresca scatterà l’obbligo di indicare il luogo di origine del prodotto.

Tutto ciò permetterà anche, nel caso in cui si presentino rischi sanitari, la possibilità di identificare e ritirare dal mercato gli alimenti sospetti, facendo ricorso al principio di precauzione.

 

Chi controlla i controllori?

Le autorità nazionali continueranno ad avere il compito della sorveglianza e dei controlli secondo regole sempre meglio armonizzate tra i quindici paesi che al momento aderiscono all’Unione che si riserva, tramite la Commissione, di operare attraverso ispezioni periodiche l’efficacia dei controlli nazionali.

Infatti l’esperienza del servizio ispettivo della Commissione, che compie visite agli Stati membri su base regolare, ha indicato che vi sono notevoli divergenze nel modo in cui la normativa comunitaria è applicata e fatta rispettare. In effetti le recenti crisi in materia di sicurezza alimentare hanno fatto emergere tutte le falle dei sistemi di controllo nazionali.

Ciò significa che finora i consumatori non hanno potuto essere sicuri di ricevere lo stesso livello di protezione su tutto il territorio dell’Unione e che, in definitiva, per la valutazione dell’efficacia delle misure attuate dalle autorità nazionali, un ruolo centrale continueranno ad averlo gli stessi cittadini.

Uno degli elementi sottolineati nel Libro bianco è il ruolo chiave che la Commissione, assieme alla nuova Autorità alimentare europea, avrà nella promozione del dialogo con i consumatori onde incoraggiare il loro coinvolgimento nella nuova politica di sicurezza alimentare.

Nello stesso tempo – si aggiunge – “i consumatori devono essere tenuti meglio informati delle nuove preoccupazioni in materia di sicurezza alimentare e dei rischi che certi alimenti particolari presentano per determinati gruppi di persone” e dell’importanza di una dieta equilibrata e sulle sue ripercussioni a livello sanitario.

 

Cibi transgenici

Uno degli aspetti più controversi del dibattito mondiale sulla sicurezza alimentare riguarda i cibi transgenici.

Secondo il commissario europeo per la salute e la tutela dei consumatori David Byrne “l’unico modo per affrontare la controversia che circonda il tema della biotecnologia è promuovere un dialogo aperto ed equilibrato tra tutte le parti interessate”.

L’attuale legislazione dell’Ue si fonda su un approccio scientifico che impedisce l’immissione sul mercato europeo di prodotti alimentari geneticamente modificati fino a che non venga condotta su di essi una valutazione scientifica e non vengano dichiarati sicuri per la salute umana e l’ambiente.

Nei casi in cui le prove scientifiche siano insufficienti o la dimostraione della sicurezza alimentare risulti inconcludente, la Commissione europea ritiene che i provvedimenti debbano basarsi su un “principio precauzionale”. Pertanto essa sta attualmente lavorando ad una comunicazione che definisca detto principio precauzionale, esaminando come e quando esso potrebe esere applicato.

Riguardo agli organismi modificati geneticamente (Ogm) la Commissione nel Libro Bianco propone la creazione di un sistema centralizzato per l’autorizzazione dell’uso di prodotti biotecnologici nell’alimentazione animale e umana.

Agli operatori verrà data la possibilità di utilizzare nell’etichettatura dei prodotti alimentari riferimenti all’assenza dell’uso di tecniche di ingegneria genetica.

Questa misura è fortemente avversata da alcuni partner commerciali dell’Unione, con in testa gli Stati Uniti (la cui cultura, in fatto di sicurezza alimentare, è ben diversa da quella europea: per gli USA bisogna prima dimostrare la pericolosità di un prodotto e, soltanto in caso positivo, si può metterlo fuori commercio) e le multinazionali del settore che non vorrebbero rendere identificabili i prodotti alimentari contenenti Ogm.

 

Autorità alimentare europea

Una volta varata la legislazione necessaria la nuova Autorità potrebbe essere istituita già entro il 2002.

Questo organismo indipendente costituirà il punto di riferimento scientifico per l’intera Unione (anche se sarà solo un organo consultivo): attingerà alle migliori conoscenze scientifiche di tutti i Paesi membri, operando a stretto contatto con le Agenzie e gli organismi scientifici nazionali, e garantirà quella autorevolezza e trasparenza necessaria anche a ripristinare e a mantenere la fiducia dei consumatori nei prodotti alimentari in vendita in Europa.

Essa sarà il referente per tutte le problematiche riguardanti la valutazione del rischio (reti di monitoraggio e sorveglianza; sistemi di informazione agricoli, sistemi di allarme rapidi) e la comunicazione sulle tematiche della sicurezza alimentare (informazione ai consumatori, etichettatura, campagne nutrizionali).

I modelli a cui si ispira questo nuovo ente sono la Food and drug administration (Fda) statunitense e l’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (Emea) anche se non avrà come nel caso dell’Agenzia americana, poteri di regolamentazione.

La nuova Autorità potrà segnalare nuovi rischi per la salute ed i problemi sanitari emergenti ma non avrà poteri legati alla gestione dei controlli: la gestione del rischio alimentare, infatti, che comprende la funzione legislativa e le attività di controllo, rimarranno di competenza di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.

 

Una sfida...vitale

L’Unione europea è il più grande importatore/esportatore di prodotti alimentari al mondo e come tale una sua azione decisa nel campo della sicurezza alimentare potrà avere un ruolo guida nella diffusione di standard produttivi sempre più alti non solo in termini di quantità ma anche e soprattutto di qualità.

Il sistema dei controlli sanitari che sarà armonizzato tra i Quindici, andrà rivisto e sviluppato anche alle frontiere esterne dell’Unione europea: il sistema attuale, basato sui posti di ispezione frontalieri che ricadono sotto la responsabilità dei singoli Stati membri, copriva solo i prodotti di origine animale.

Secondo il nuovo progetto si dovranno controllare tutti i prodotti agricoli ed alimentari, rendendo anche più semplici ed uniformi le regole e le tasse nazionali relative ai controlli alle frontiere.

Se quello delle frodi e della criminalità nel settore mangimistico costituice uno dei più pesanti dossier alimentari che l’Unione europea si trova a dover affrontare, non bisogna dimenticare che la comunità internazionale deve vedersela con almeno altri tre scottanti capitoli concernenti l’alimentazione:la già ricordata affidabilità ambientale e sanitaria dei cibi transgenici, la vicenda delle cosiddette “bistecche agli ormoni” e l’uso degli antibiotici “da ingrasso” (vedi schede).

Ma il vero problema di fondo messo in evidenza da queste vicende è il cinismo del guadagno facile pronto anche a danneggiare la salute umana e l’ignoranza di una scienza asservita al potere economico che tratta gli animali alla stregua di macchine da cui trarre il massimo profitto.

E’ una sfida mondiale a cui la vecchia Europa, culla di civiltà, forse può contribuire indicando strade nuove, ispirate da principi consoni al rispetto di un concetto apparentemente astratto (quello di vita) assai difficile da definire e da ricreare in laboratorio, eppure così concreto, direi “vitale” quando noi uomini rischiamo di perderla, per sempre!

L’evoluzione dell’uomo si misura anche dal suo comportamento nei confronti delle creature a cui dobbiamo quanto meno riconoscenza per il ruolo che svolgono nell’ecosistema Terra e da cui dipende l’esistenza stessa dell’uomo.

Se avveleniamo e alteriamo le piante e gli animali che mangiamo distruggeremo presto noi stessi, dimostrando così di non meritare l’altisonante appellativo “sapiens sapiens” che ci siamo autoattribuito e di cui ci fregiamo, tutto sommato piuttosto immeritatamente, appena da qualche millennio.

 

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Scheda 1

BISTECCHE AGLI ORMONI...

I primi dubbi nacquero quando agli scaricatori del mercato parigino di Les Halles cominciò a crescere il seno...

Colpa del loro piatto preferito, a base di colli di pollo che trovavano con facilità sui banchi di macelleria: all’epoca proprio nei colli venivano impiantate capsule di ormoni estrogeni per far crescere meglio gli animali. Erano gli anni ‘50 e da allora le autorità sanitarie hanno imposto leggi e controlli sull’uso dei farmaci negli allevamenti ma la situazione varia da continente a continente.

Su questo argomento si è scatenata da tempo tra Europa ed USA una vera e propria guerra commerciale e scientifica.

Nonostante il parere contrario dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) l’Unione europea ha posto il veto all’importazione di carne statunitense che per il 95% è ricavata da bovini “gonfiati” con sei diversi ormoni sessuali da tempo vietati in Europa.

Secondo la Food and Drug Administration americana questi ormoni, se opportunamente impiantati sotto la cute dell’orecchio del bovino, vengono considerati compatibili con un consumo sicuro.

Anche l’JECFA (l’organismo che per conto della FAO e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta gli effetti sulla salute umana dei farmaci di uso veterinario) ha stabilito che i tre più comuni ormoni somministrati agli animali d’allevamento - 17 beta-estradiolo, testosterone e progesterone - non sono riscontrabili in livelli alterati nelle bistecche d’oltreoceano.

Ma questi dati vengono contestati, oltre che dalle autorità sanitarie europee anche da ricercatori americani come Samuel Epstein, docente di medicina ambientale dell’Università dell’Illinois di Chcago, secondo il quale in un trancio di carne di 500 grammi capita di trovare tanto 17 beta-estradiolo quanto ne viene prodotto da un organismo di un adolescente in 24 ore.

La ragione di questi valori alterati starebbe nel fatto che molti allevatori, invce di impaiantare l’ormone nell’orecchio, preferirebbero somministrarlo nel collo degli animali, aumentando così notevolmente la quantità di sostanza in circolo.

La cosa è particolarmente grave per il 17 beta-estradiolo, per il quale esistono ormai ampie prove epidemiologiche sul suo potere genotossico e cancerogeno, soprattutto per l’endometrio e il seno.

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Scheda 2

FETTINE AGLI ANTIBIOTICI...

Un’altra emergenza all’ordine del giorno per la nuova Aurorità europea sarà costituito dallall’uso in molti allevamenti di antibiotici come fattori di crescita della massa muscolare degli animali. Gli antibioticinon vengono infatti usati non solo per debellare le infezioni ma anche in dosi subterapeutiche per aumentare il rendimento nutritivo dei mangimi.

L’abuso di antibiotici si ripercuote poi sui consumatori di quelle carni perchè la resistenza agli antibiotici da parte di batteri che di solito infettano gli animali si può trasmettere agli uomini attraverso i cibi.

Già nei primi mesi del 1998 un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Science denunciava i rischi di “spuntare” le armi della medicina e di renderla inerme di fronte agli attacchi di una grande quantità di batteri (anterobatteri, salmonelle, enterococchi).

Secondo un documento del Ministero dell’agricoltura francese, i mangimi animali sono “corretti” con antibiotici nel 98% degli allevamenti di suini, , nel 96% in quelli dei tacchini e nel 68% degli altri avicoli. Ton van den Boogaard, del Dipartimento di microbiologia veterinaria dell’Università di Maastricht ha stimato in 200 tonnellate all’anno la quantità di antibiotici aggiunti ai mangimi in Olanda, mentre in Gran Bretagna la Soil Association valuta in 100 tonnellate la quantita di questi farmaci usati come anabolizzanti.

Per questo i paesi occidentali stanno correndo ai ripari ed hanno emanato negli ultimi anni norme sempre più severeanche se forse basterebe almeno rispettare le direttive del comitato Swann del Regno Unito che già nel 1969 stabiliva che gli antibiotici usati nella chemioterapia o quelli capaci di promuovere resistenza crociata non dovessero essere usati come promotori della crescita animale, posizione condivisa anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ma che finora non è stata rispettata nè in Europa nè in altri parti del mondo.

Il bando degli antibiotici in zootecnia secondo alcuni esperti non sarebbe poi così disastroso per i produttori: i medesimi risultati potrebbero essere raggiunti migliorando altri aspetti della cura degli animali come la loro igiene e il loro benessere.

 

 

 

 

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UN'ALIMENTAZIONE PER IL BENESSERE UMANO E AMBIENTALE

UN'ALIMENTAZIONE PER IL BENESSERE UMANO E AMBIENTALE

Verso la rinascita cosciente di una antica cultura agro-alimentare

 

 

Colo, is, colui, cultum, colere:

adorare, rispettare, venerare,

coltivare, lavorare la terra,

abitare, dimorare,

aver cura, onorare,

preparare, aggiustare,

conservare.

 

Dal “Vocabolarium Latinum et Italicum

ad usum Regiae Taurinensis Academiae”

Tomus Secundus,

Venetiis, MDCCLXXVI

 

 

Le ultime vicende che hanno sollevato più di un velo “pietoso” sulle modalità della produzione alimentare nel continente euopeo (e non solo) e sulla gestione anch’essa affatto trasparente dell’informazione sulla sicurezza alimentare dei prodotti che giungono sulle nostre tavole, ripropone con forza la necessità di interrogarci sul valore che attribuiamo all’alimentazione e, di conseguenza, alle modalità produttive da cui scaturiscono i cibi di cui ci nutriamo.

L’antica traduzione del verbo latino sopra riportata racchiude in sé la sacralità di un lavoro antico vissuto nella conoscenza e nel rispetto dei tempi della natura.

La crisi di un modello produttivo avulso da questo rispetto, ispirato a valori antitetici a quelli della salute dell’uomo, ci spinge tutti ad interrogarci sul grado di conoscenza che ognuno dovrebbe avere su ciò su cui si fonda il nostro benessere.

Il diritto all’informazione da parte dei cittadini di uno Stato deve più che mai divenire dovere morale dell’individuo attraverso la fruizione di un adeguato sistema di educazione alimentare fin dalle prime classi della scuola.

Solo quando tutti avranno, attraverso una adeguata e trasparente opera di formazione, piena coscienza delle trasformazioni tecnologiche che sempre di più incombono sui nostri cibi, solo allora il cittadino potrà davvero scegliere.

 

Gli italiani e l'informazione alimentare: un sondaggio che la dice lunga

Nel aprile del 2000 l'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) ha effettuato un'indagine campionaria per studiare la percezione dei consumatori italiani su alcuni temi riguardanti la sicurezza alimentare. Ecco in breve i risultati di questa indagine:

  • Irradiazione degli alimenti: il 49% degli intervistati non ne ha mai sentito parlare;

  • Ingegneria genetica applicata agli alimenti: il 32% ne ignora l'esistenza;

  • Additivi negli alimenti: il 12% dei consumatori non sa di che si tratta.

Su questi argomenti la maggior parte degli intervistati, comunque, si dichiara "molto preoccupato" dei rischi ad essi associati e ritiene "molto probabile" che la sua salute ne venga danneggiata.

Il livello di conoscenza dei rischi alimentari per la salute umana è piuttosto basso. Quasi la metà del campione infatti "conosce poco" di ciascun argomento considerato, in particolare dell'ingegneria genetica applicata alla produzione alimentare.

Per quanto riguarda la percezione del rischio, i consumatori si dicono "molto preoccupati" per i rischi associati ai residui dei pesticidi negli alimenti (il 55%), alla contaminazione batterica degli alimenti (il 56%) e alla carne di "mucca pazza" (il 57%). Analogamente, il 54% ritiene "molto probabile" che la sua salute venga danneggiata da alimenti che contengono residui dei pesticidi utilizzati in agricoltura, il 49% da alimenti che contengono microrganismi patogeni (salmonella, botulino, ecc.), il 47% da carne di bovini affetti da BSE.

La maggioranza dei rispondenti è "molto d'accordo" nel ritenere che il governo, l'industria e gli agricoltori/allevatori siano responsabili della sicurezza alimentare, ma include tra i principali responsabili anche la Commissione europea. Il consumatore e i distributori di alimenti, questi ultimi visti separatamente dall'industria, sono considerati invece meno responsabili. D'altra parte, molti sono "moderatamente d'accordo" quando si afferma che la sicurezza alimentare è ben garantita dal governo, l'industria alimentare e gli agricoltori/allevatori.

La maggior parte degli intervistati dichiara di rivevere "molta" ovvero "abbastanza" informazione sulla sicurezza alimentare da parte della televisione. Al contrario, il 43% dei soggetti dichiara di non ricevere nessuna informazione (cioé "per niente") sulla sicurezza alimentare dal proprio medico personale.

Sulla fiducia nelle varie fonti di informazione, la maggioranza dei rispondenti ha "molta fiducia" nelle associazioni dei consumatori e negli istituti di ricerca, ma anche nei gruppi ambientalisti e nel Ministero della Sanità. I giornalisti ed il governo, invece, riscuotono il più basso grado di fiducia in quanto si attribuisce loro una "poco adeguata" conoscenza sui rischi alimentari per la salute umana. Comunque una quota consistente di consumatori giudica “poco complete” le informazioni sui rischi alimentari per la salute umana divulgate dalle varie fonti.

 

La Conferenza Nazionale per l'Educazione alimentare

Un quarto di secolo divide la Prima dalla Seconda Conferenza Nazionale per l’Educazione Alimentare. Venticinque anni, una generazione appena, che però hanno visto il cambiamento di stili di vita, di conoscenze scientifiche, di tecnologie produttive, di abitudini alimentari, temi sui quali nutrizionisti, giornalisti, insegnanti, medici, antropologi, tecnologi degli alimenti si sono confrontati a Roma, dal 15 al 17 febbraio scorsi, presso la sede della FAO.

Scopo della Conferenza (promossa dal Ministero della Pubblica Istruzione, dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) era di fare il punto su queste nuove realtà e di studiare le più aggiornate strategie di intervento - in termini di contenuti, indirizzi e metodologie - per una più ampia diffusione dell’educazione alimentare e, più in generale, per una migliore informazione alimentare.

La prima giornata dei lavori ha messo a fuoco l’evoluzione dello scenario alimentare in Italia, delineando, da diverse angolazioni, il quadro generale di riferimento e gli interventi di educazione alimentare nella scuola e nella società.

Sempre più attuale è il problema della qualità, sicurezza e diversità dei prodotti agro-alimentari a cui è stata dedicata un intera sessione, seguita da quella volta a delineare l’evoluzione delle linee-guida nutrizionali sia a livello nazionale che europeo.

Il secondo giorno della Conferenza é stato dedicato ai workshop (Educazione e prevenzione nella scuola; Il ruolo dei media; Contenuti, mezzi e canali per l’informazione alimentare nelle scuole e nella società) che ha visto l’attiva partecipazione delle molti componenti presenti nel pubblico che ha seguito i lavori di questa Conferenza, conclusasi poi con una tavola rotonda che ha visto il confronto con le varie istituzioni che, a vario titolo, lavorano nell’ambito dell’educazione alimentare nel nostro Paese.

 

L'italiano a tavola: nuove mutazioni o vecchie tradizioni?

La grande tradizione della cucina italiana rispecchia da sempre un valore aggiunto che il nostro popolo attribuisce al mangiare: al pasto è sempre stata associata la tavola apparecchiata, la famiglia riunita, il concetto di "convivialità", il 'vivere insieme' che, dai Latini, a Dante, da Machiavelli a Pascoli attraversa nei secoli la cultura italiana.

La relazione del Direttore centrale dell'ISTAT, Linda Laura Sabbadini, su "Stili di vita e alimentazione", conferma la centralità del pranzo a casa come pasto principale (il fast food è ancora prevalentemente un modo per impiegare il tempo libero) anche se il lavoro condiziona gli stili di vita e l'alimentazione (gli stili alimentari meno salutari sono appannaggio per lo più degli uomini, occupati, nelle grandi metropoli del Centro Nord del Paese).

I bambini rappresentano un segmento di popolazione particolarmente esposto: per 890 mila bimbi delle materne e circa 700 mila delle elementari è cruciale la qualità dell'alimentazione delle mense scolastiche, dal momento che il pranzo come pasto principale nel 74% dei casi avviene proprio nelle mense.

Secondo l'indagine dell'ISTAT dal 1994 al 1999 l'obesità della popolazione è aumentata del 25%.

Il 9,1% della popolazione maggiorenne è obesa (circa 4 milioni di persone - l'apice dell'obesità è raggiunta dai 55 ai 64 anni ed interessa maggiormente le persone di status sociale e culturale più basso), il 33,4% è in sovrappeso, tutto ciò frutto di una vita sempre più sedentaria.

Vi è anche da dire che emerge da questa indagine un settore attento a comportamenti salutari (consumare una colazione adeguata, controllare il proprio peso, porre attenzione alle date di scadenza dei cibi, leggere gli ingradienti sull'etichetta, praticare attività fisica o sportiva almeno una volta a settimana).

Altre indagini dimostrano che malgrado una diminuzione dei consumi alimentari nell'ultimo decennio e dell'introito energetico medio (calato a circa 2200 kcal/giorno) non si osserva un parallelo calo della prevalenza del sovrappeso (circa un adulto su due ha questo problema) e dell'obesità della popolazione, anche tra i bambini e gli adolescenti (circa 1/5 ha problemi di peso).

In termini di alimenti, quelli che hanno subito il maggior calo in quest'ultimo decennio sono stati il vino, i grassi da condimento, i formaggi più grassi, le carni e il latte intero mentre alimenti come il pesce, gli ortaggi, la pizza, il latte scremato hanno subito un aumento di consumo.

 

Educazione alimentare e salute: la necessità di un approccio integrato

E' risaputo che l'adozione di sane abitudini di vita, basate su di una corretta alimentazione e su un buon livello di attività fisica, consente di ridurre il rischio di contrarre malattie croniche e degenerative nella maturità.

Il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 identifica nell'eccesso di peso uno dei più importanti fattori di rischio per la salute (assieme al fumo, al consumo di alcool e alla sedentarietà) ed invita il mondo della comunicazione ad assumere un preciso impegno "nel diffondere l'informazione e le conoscenze scientifiche, nel favorire l'adozione di modelli di comportamento e di stili di vita, nel determinare aspettative e bisogni nei confronti della salute e dei servizi sanitari".

Interventi di educazione alimentare basati sulla diffusione di informazioni nella scuola, sulla comunicazione di massa e sul consiglio individuale possono raggiungere questi obiettivi nella popolazione, purché adeguatamente condotti per un tempo sufficientemente lungo.

Nel corso degli ultimi venti anni le iniziative di educazione alimentare nel nostro paese sono state numerose ma, ad eccezione delle poche realizzate a livello nazionale, la maggior parte di esse è stata condotta limitatamente ad alcune aree geografiche circoscritte.

Inoltre sono state realizzate da organismi pubblici diversi in modo indipendente e, il più delle volte, trascurando quanto già fatto da altre istituzioni o addirittura da istituzioni analoghe nello stesso settore, ovvero nella totale assenza di un coordinamento unico o, almeno, di linee guida di riferimento che consentissero di operare secondo strategie coerenti.

La letteratura scientifica a tale proposito dimostra che iniziative isolate, discontinue e di breve durata, hanno una ridotta efficacia e producono scarse sinergie, con risultati scadenti o molto modesti (sovente non confrontabili) rispetto alle risorse ed energie profuse.

Tale situazione ha caratterizzato anche la realtà dell'educazione alimentare nel mondo della scuola italiana in questi ultimi venti anni: le prospettive che possono aprirsi oggi grazie alla prospettiva dell'autonomia scolastica rischiano, da un lato, di incrementare la parcellizzazione delle iniziative mentre, dall'altro, possono offrire - se basati su progetti integrati caratterizzati da un approccio interdisciplinare e finalizzati all'acquisizione di competenze - uno strumento in grado di favorire la formazione e la crescita culturale e personale degli studenti.

 

Alimentazione: dall'emergenza alla scienza... con coscienza

La stessa impostazione metodologica dovrebbe essere utilizzata nella valutazione della qualità degli alimenti: oggi infatti l'alimento non deve essere studiato come elemento finale di un processo, avulso dal sistema produttivo ma deve essere visto quale risultante strettamente inserita in esso.

I problemi economici della produzione (che sia di massa o di nicchia, che si parli di agricoltura biolocica o di ingegneria genetica), la salvaguardia dell'ambiente, il benessere degli animali sono infatti tutti elementi che fanno parte integrante del "sistema alimentazione".

La sicurezza di un alimento infatti può essere descritta come una catena che inizia alla fattoria e continua con la raccolta (nel caso dei vegetali), il trasporto, la macellazione (nel caso degli animali), la manipolazione, la trasformazione e la distribuzione per completarsi alla tavola del consumatore.

In ogni caso, è stato affermato che un contributo per una migliore salute ed una migliore qualità della vita può senz'altro venire da una sempre migliore integrazione tra nutrizione, tecnologie alimentari e sistema agroalimentare.

In questo senso la ricerca scientifica dimostra sempre di più la sua essenzialità in quanto permette di individuare i meccanismi alla base dei fenomeni e di offrire risposte (anche se non sempre definitive) ai problemi legati alla sicurezza nelle varie fasi.

Negli ultimi vent'anni la scienza è stata sempre più chiamata in causa per dare una parola definitiva su questo o quel problema. Non sempre il verdetto emesso è stato unanime anche perché, talvolta, gli scienziati chiamati a dirimere le questioni ricevono pressioni dalle parti in causa.

Mai come nella vicenda degli organismi geneticamente modificati gli scienziati si sono divisi in due fazioni, ma si possono citare altri esempi: negli USA si impiegano ormoni per le carni e questo è permesso sia dalla legge che dalla scienza. In Europa invece il Comitato scientifico chiamato in causa sulla vicenda dell'uso degli ormoni in zootecnia, si è dichiarato contrario al loro impiego proprio per i gravi rischi per la salute.

Le procedure individuate a livello europeo per la selezione degli scienziati facenti parte del Comitato Scientifico Permanente (costituito su base multidisciplinare nel 1996, in seguito alle vicende della "mucca pazza") al quale si sono aggiunti nel novembre del 1997 altri otto comitati (Alimentazione umana; Alimentazione animale; Salute e benessere degli animali; Misure veterinarie in rapporto alla salute pubblica; Piante; Cosmetici e prodotti non alimentari destinati ai consumatori; Farmaci e dispositivi farmaceutici; Tossicità, ecotossicità e ambiente) pone oggi i consumatori europei in una situazione forse non assoluta, ma di grande tranquillità.

Anche se oggi affidiamo alla scienza tanta parte della tutela della nostra alimentazione e della nostra salute, ciò non ci può esimere dall'esercitare il diritto all'informazione, al controllo e all'intervento come individui o in forma associata (centralità ribadita anche dalla approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), per stimolare le istituzioni a dare piena attuazione a diritti umani fondamentali quali quello all'alimentazione e alla salute.

 

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Riquadro

 

IL RILASCIO NELL'AMBIENTE DI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI E' UN PERICOLO PER LA SALUTE?

I risultati di un seminario internazionale organizzato dall'Organizazione Mondiale della Sanità e dall'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente

 

Con il patrocinio del Ministero dell'Ambiente e del Ministero della Sanità si è svolto a Roma nel settembre 2000 un quanto mai attuale seminario internazionale che ha visto riuniti 25 scienziati ed una quindicina di osservatori e rappresentanti delle organizzazioni internazionali, provenienti da 15 Paesi. Finalità dell'incontro era quella di correlare, nell'identificazione del pericolo associato agli OGM - Organismi Geneticamente Modificati (piante e microrganismi), i componenti ambientali e della salute.

Le categorie di pericolo, associato al rilascio nell'ambiente degli OGM, di cui hanno trattato i partecipanti al seminario e di cui si sarebbero identificati od esclusi gli effetti sulla salute umana, si sono limitate alle seguenti:

  • alterazione del pool genetico;

  • alterazione della struttura e della funzione dell'ecosistema;

  • sviluppo di resistenze.

Dopo una prima sessione, dedicata alle attività inerenti le biotecnologie delle Organizzazioni Internazionali (OMS, FAO, UNEP, l'OCSE e l' ICGEB - Centro Internazionale per l'Ingegneria Genetica e le Biotecnologie, che ha sede a Trieste) gli scienziati invitati hanno presentato i loro studi in 5 sessioni. La prima ha affrontato gli aspetti metodologici della "Valutazione del Rischio Ambientale" degli OGM nonchè quelli legati alla "Valutazione dell'Impatto sulla Salute", mentre nelle altre quattro sessioni si sono confrontate le idee sugli ipotetici pericoli legati al trasferimento genico tra piante, batteri e virus, con particolare riferimento a problematiche quale quelle legate all'induzione di resistenze (per es. agli antibiotici o ai virus), all'impatto sulla fauna non-bersaglio o alle interazioni che si possono verificare in ambienti particolarmente a rischio (il tratto gastro-intestinale dell'uomo, il suolo agrario).

Sarebbe impossibile riassumere tutta la ricchezza del dibattito suscitato da queste ricerche. Ci limitiamo pertanto a proporre ai nostri lettori le "Conclusioni e Raccomandazioni" formulate a conclusione dei lavori.

CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI *

(*) Il seminario riconosce che i pericoli discussi non sono unici per gli OGM ma possono essere anche riferiti ad altri organismi.

In generale:

  1. I partecipanti riconoscono che dal rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM) possono derivare pericoli per la salute umana, quindi è necessario effettuare un’analisi del richio prima del rilascio;

  2. I partecipanti sentono che si possono identificare pericoli specifici per determinati gruppi per esempio di OGM, colture, caratteristiche. Comunque, l’analisi del rischio da OGM deve essere condotta sulla base di un approccio “caso per caso”;

  3. I partecipanti concordano che la valutazione del rischio deve essere fatta considerando la variabilità ambientale e genetica;

  4. I partecipanti riconoscono l’esistenza di carenze sulle conoscenze e quindi, per far fronte alle esigenze presenti e future, c’è bisogno di studi continuativi e di un significativo incremento dei fondi per la ricerca associata alla biosicurezza e per la formazione di competenze;

  5. I partecipanti sono d’accordo, con una eccezione, che l’innovazione tecnologica (technology shaping) potrebbe essere progettata in modo da includere dei criteri che aumentino la sicurezza;

  6. I partecipanti concordano che l’analisi del rischio dovrebbe sempre prendere in considerazione le alternative, incluse quelle non biotecnologiche (una valutazione comparativo del rischio che comprenda tutte le alternative)

  7. Con una eccezione, tutti i partecipanti raccomandano un monitoraggio posteriore al rilascio (incluso lo sviluppo di protocolli appropriati) sufficientamente ampio da rilevare conseguenze inattese, includendo la formazione di competenze nei Paesi in via di sviluppo;

  8. I partecipanti concordano che deve esere rafforzata l’analisi del rischio, in modo dacoinvolgere tutti gli organi decisionali.

In particoalre: la discussione si è focalizzata sul trasferimento del DNA, sullo sviluppo di resistenze e sugli effetti non-bersaglio con le seguenti conclusioni:

  1. I partecipanti hanno concluso che il trasferimento genetico potrebbe essere un pericolo se sono coinvolti i geni che codificano per proteine che influiscono sulla salute umana;

  2. I partecipanti riconoscono che si dovrebbe indagare ulteriormente sul trasferimento e sull’espressione del DNA nei vari ecosistemi;

  3. I partecipanti sono dell’avviso che l’istaurarsi della resistenza può richiedere dei cambiamenti nelle strategie di gestione delle specie dannose che generano dei pericoli per la salute umana;

  4. I partecipanti sono d’accordo che si dovrebbero studiare in maniera più approfondita quesgli effetti non-bersaglio che sono in relazioni con le pratiche agronomiche ed i problemi della biodiversità.

 

 

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L’INDUSTRIA DEL GAMBERO

L’INDUSTRIA DEL GAMBERO: UN “PASSO INDIETRO”

NEL RISPETTO DELLA NATURA E DELL’UOMO



I gamberetti vivono meglio di noi.

Hanno la corrente elettrica, noi no.

I gamberetti hanno acqua pulita, noi no.

I gamberetti hanno a disposizione grandi quantità di cibo,

noi soffriamo la fame”.

Pescatore delle Filippine


Ricordate la celebre interpretazione di Tom Hanks nel film “Forrest Gump”? Alla base delle sue fortune economiche, dopo la sfortunata avventura in Vietnam, fu la pesca “casuale” di un enorme banco di gamberetti. Quegli stessi gamberetti che rischiano ora di scatenare un ennesima guerra commerciale tra Washington e Hanoi per la decisione americana di imporre dazi altissimi contro i produttori asiatici (i pescatori di gamberi in Vietnam sono 3,5 milioni, vivono nelle campagne e dall’attività ricavano quasi tutti i mezzi di sussistenza), accusati di vendere a costi inferiori a quelli di mercato.

L’industria dei gamberetti è uno dei settori più redditizi del comparto ittico: enormi quantità di gamberetti vengono allevate nel Terzo mondo per essere spedite e consumate in Giappone, Europa e Stati Uniti. Nel 2001, secondo il World Watch Institute, oltre 4,2 milioni di tonnellate di gamberetti sono finite nei piatti dei consumatori dei paesi ricchi.

La Cina è la maggiore produttrice mondiale: nel 2000 ne ha pescati oltre 1,2 milioni di tonnellate (più del doppio rispetto a 10 anni prima e oltre 3 volte i suoi più diretti concorrenti: India, Thailandia - che è il maggiore esportatore mondiale - e Indonesia).

E proprio tra gli USA e molti Stati produttori è in atto la guerra commerciale di cui sopra che tra poco arriverà sul tavolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: ci sono in ballo 3,5 miliardi di dollari di sole importazioni negli USA, i sei Paesi (Cina, Vietnam, Thailandia, India, Brasile ed Ecuador) che attualmente coprono il 74% delle importazioni statunitensi e milioni di persone, per lo più povere e poverissime, coinvolte in tutto il mondo nella produzione e nel commercio dei gamberetti.

Gravissimi sono anche i danni ecologici che questo tipo di sfruttamento delle risorse ittiche mondiali sta arrecando agli ecosistemi: gli allevamenti dei gamberetti, oltre a essere una delle industrie ittiche più lucrative sono anche tra le più devastanti al mondo in quanto utilizzano strumenti per la pesca che distruggono l’habitat sottomarino alla stregua dell’effetto delle ruspe nelle foreste tropicali, rastrellando e devastando tutto ciò che incontrano nel loro cammino.

Gamberetti: sapore di mare… dal gusto un po’ amaro

Le nostre abitudini alimentari si modificano molto rapidamente, da una distribuzione regionale, la moda di mangiar pesce ha portato prodotti ittici da tutto il mondo sulla nostra tavola. Il consumo di pesce in generale ed in particolare di gamberi non comporta però solo vantaggi, come un notevole apporto proteico con pochi grassi, bensì anche notevoli problemi ecologici, socio-economici e sanitari.

Non solo la mancanza dell'indicazione del luogo di origine e provenienza del prodotto è un elemento di preoccupazione per i consumatori, ma principalmente 3 tipi di problemi che dovrebbero far riflettere in relazione al consumo di pesce e di gamberetti:

  • i metodi di pesca in grandi quantità (pesca industriale) e l'allevamento intensivo;

  • i riflessi ecologici e sociali di tali sfruttamenti intensivi;

  • la contaminazione da residui chimici e di batteri e germi dei prodotti immessi sul mercato.

Metodi senza scrupoli nella pesca di gamberetti

Circa ¾ dei gamberetti presenti sul mercato vengono prelevati prevalentemente da natanti da pesca negli estuari, nelle baie e nelle piattaforme continentali.

Le quantità di pescato sono sempre minori, in contrapposizione ad impieghi sempre più massicci di flotte di pescherecci, che razziano il fondale marino con enormi reti a strascico. Le conseguenze di tale distruzione del fondale sono dapprima quasi invisibili, ma comportano la scomparsa o danni irreparabili ad importanti spazi ecologici - importanti anche per la riproduzione di pesci, molluschi, rettili, crostacei, ma anche di altri organismi, come il corallo e le piante acquatiche, solo successivamente avvertibili.
L'enorme pescato di pesci, tartarughe, piante marine e conchiglie (pescato accidentale) non viene utilizzato nelle pescherie di gamberetti e viene rigettato morto nell’oceano. Nelle regioni temperate il rapporto tra pescato accidentale e gamberetti è nell’ordine di 5 a 1, mentre nei tropici può raggiungere valori di 10 a 1 e oltre. Si ritiene che globalmente la pesca dei gamberetti sia responsabile di 1/3 del pescato accidentale del mondo ma soltanto del 2 % dei prodotti ittici mondiali.

Accordi internazionali per l'impiego di reti, le quali offrono al pescato accidentale una via d'uscita, vengono viste da molti pescatori solo come distorsioni del mercato. La concorrenza fra pescatori locali (pesca tradizionale) e grandi pescherie industriali è foriera di conflitti. I primi sono a ragione preoccupati per le loro aree di pesca, servono anche alla pesca industriale, ma non distruggono il fondale. Con le loro piccole reti essi pescano in genere solo gamberetti giovani, in quanto quelli più vecchi e quindi più grandi vivono a profondità maggiori. È anche per questa ragione che i pescatori tradizionali vendono il prodotto a prezzi minori.


La soluzione è nell'allevamento?

L'allevamento di pesci, crostacei, e piante acquatiche, definita come "acquacoltura" trae origine dalla cosiddetta "rivoluzione blu" avvenuta in tutto il mondo. Con questa forma di allevamento si mira a far fronte alle richieste del mercato, compensando contemporaneamente lo sfruttamento dei mari.
I problemi ecologici che ne derivano, sono però inquietanti. L'installazione di impianti di "acquacoltura" è la principale responsabile della distruzione di foreste di mangrovie, ambiente di crescita di molte specie ed importante biotopo contro l'erosione delle coste (quasi ¼ delle foreste di mangrovie tropicali ancora esistenti è stato distrutto negli ultimi vent’anni, per lo più per fare spazio agli allevamenti di gamberetti.
L'acquacoltura, di per sè una vecchia tecnica adottata nelle risaie, è divenuta dannosa in seguito al suo utilizzo intensivo (impiego di vari agenti chimici, fertilizzanti artificiali, salatura del terreno circostante), che è causa di numerosi danni all´ambiente. I bacini vengono in parte installati sulla costa. Per mantenere sani gli animali allevati, è necessario il ricambio giornaliero di 1/3 dell'acqua del bacino (costituita al 50% da acqua di mare ed al 50% da acqua dolce). Quando i gamberetti raggiungono dimensioni adatte allo smercio, i bacini vengono svuotati (e questo causa l'accumulo di sale e residui organici sul fondo). Dopo numerose raccolte, il letto del bacino rimane ricoperto da resti organici e chimici in tale quantità da costringere gli operatori all'abbandono del bacino ed alla realizzazione di un nuovo impianto altrove. Lasciando però, in tal modo, foreste di mangrovie completamente distrutte ed il terreno salato e carico di agenti chimici, la cui bonifica risulta molto costosa.

Risulta inevitabile che da questo sfondo scaturiscano anche problemi sociali e di violazione dei diritti umani. La concorrenza per il terreno, l'acqua potabile e la concorrenza per l'utilizzo di foreste di mangrovie (privatizzazione di strisce di terreno prima pubblico) alimentano problemi sociali tra la popolazione locale e le industrie del settore. L'acquacoltura intensiva necessita, infatti, di molto terreno e di molta acqua ma di relativamente poca manodopera, il che origina anche inevitabili ripercussioni sull’occupazione e conflitti con la popolazione locale (vedi riquadro) che spesso si traducono in confische di terreni, violente intimidazioni nei confronti dei pescatori locali e perfino omicidi.


La situazione riguardo qualità del prodotto ed igiene

Purtroppo, la possibilità di individuare la provenienza dei prodotti ittici non c'è ancora e tarderà sicuramente a venire. Questo riguarda anche i commercianti, i quali si devono affidare ai grossisti, i quali a loro volta si devono "affidare" al pesce. Una certificazione trasparente e soddisfacente dei prodotti di produzione internazionale (metodi di allevamento, di pesca e di conservazione) è fortemente auspicabile. I controlli nel settore della pesca si limitano troppo spesso a test sull'odore e sul sapore, finalizzati all'individuazione di eventuale pescato non fresco. Metalli pesanti, pesticidi ed antibiotici vengono invece cercati solo in occasione di controlli a campione, quando si hanno dei sospetti oppure dietro richiesta di qualche commerciante. Gli uffici competenti a livello comunitario hanno carenze di personale che impediscono loro di garantire un controllo efficace e soddisfacente. Indagini condotte su richiesta dei privati, hanno individuato diverse sostanze vietate nell'Unione Europea, che oscillano dal "preoccupante" al "sicuramente dannoso per la salute", come ad esempio il chloramphenicolo - pericoloso per l'uomo e proibito in EU - rinvenibile nei gamberetti King's Prawn.
Indagini condotte per conto di Ökotest (1997) hanno riscontrato considerevoli quantità di microrganismi (batteri e germi), sia nei prodotti freschi che in quelli confezionati. Conseguenze per l'uomo: possibilità di malessere, vomito, diarrea, febbre e di intossicazioni alimentari.

 

Cosa può fare il consumatore?

Al momento poco, purtroppo: si può informare presso il suo pescivendolo riguardo origine, metodi di pesca e di produzione. Quanto tali informazioni possano però essere attendibili e quindi rassicuranti, è alquanto dubbio.

Finchè le autorità competenti faranno poco o nulla per rendere le condizioni di produzione ecologicamente e socialmente sostenibili, il lusso del consumo di gamberetti rimane irresponsabile, e molte organizzazioni non governative invitano al boicottaggio: rinunciare al consumo di gamberetti - specialmente di quelli di provenienza dalle zone tropicali - finchè non verrà trovata un'alternativa sostenibile all'allevamento distruttivo.

Su questo fronte Banca Mondiale, FAO e associazioni ambientaliste stanno studiando possibili norme per la certificazione ambientale dell’acquacoltura, per sviluppare e promuovere sistemi che riducano drasticamente il pescato accidentale e per promuovere sistemi di allevamento ecocompatibili in grado di frenare la distruzione degli ambienti costieri consentendo alle popolazioni locali di vivere con dignità del proprio lavoro.



Bibliografia

World Watch Institute (2004): State of the World. Edizioni Ambiente.

R. Bongiorni (2004): Gamberi, una battaglia da 3,5 miliardi di dollari. Il Sole-24 ore n. 234, 25 agosto 2004, pg. 28

AA.VV. (2003): Bilancio Terra . Gli effetti ambientali dell’economia globalizzata. Edizioni Ambiente.

AA.VV. (1991): Salviamo la Terra. Editoriale Giorgio Mondatori.

J. R. McNeill (2002): Qualcosa di nuovo sotto il sole. Einaudi.

Environmental Justice Foundation (2003): Squandering the seas. London.

FAO (2003): World agriculture: towards 2015/2030. Earthscan Publications, London.


Websites


www.centroconsumatori.it

www.carta.org/cartamondo/

www.fao.org

www.earth-policy.org

www.earthisland.org

www.enaca.org

 

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Riquadro

I gamberetti indiani: un problema globale, fra diritti umani e protezione ambientale


L'industria dell'allevamento intensivo dei gamberetti in India si è sviluppata a seguito della "terapia d'urto" avviata con i sussidi della Banca Mondiale e con gli accordi di prestito sottoscritti dal governo indiano con Fondo Monetario Internazionale resi necessari per pagare gli ingenti debiti con i Paesi stranieri negli anni ottanta.

La Banca Mondiale stanziò un ingente fondo in dollari da destinare allo sviluppo dell'acquacoltura in diversi stati indiani, assicurando che un tale progetto poteva creare impiego per milioni di persone oltre a sviluppare un largo tratto di zone costiere.

Il governo indiano contribuì a tale iniziativa avviando un programma di totale liberalizzazione del mercato: eliminò i controlli e la necessità di avere delle licenze, non pose alcun limite quantitativo alle produzioni e - sostenuto dai prestiti della Banca Mondiale - estese i sussidi finanziari e doganali sugli equipaggiamenti, i macchinari, l'alimentazione dei gamberetti, e la costruzione degli impianti.

Il programma di sviluppo sull'acquacoltura dei gamberetti venne chiamato “rivoluzione blu” . Sulla scia della “rivoluzione verde”, che aveva profondamente modificato l'agricoltura indiana attraverso l'introduzione di sementi ad alto consumo (di fertilizzanti, di concimi e irrigazioni) e ad alta resa (un numero maggiore di raccolti per anno per unità di superficie coltivata), così la rivoluzione blu promise agli investitori profitti da capogiro, grazie all'introduzione di gamberetti ad alto consumo e ad alta crescita che assicurano un immediato guadagno sull'investimento fatto.

Allo stesso modo della prima rivoluzione, l'attività veniva gestita da coloro che avevano le risorse per pagare le necessarie tecnologie o che disponevano della terra per sostenere le attività.

L'impennata di crescita dell'industria dei gamberetti si trovò di fronte a un ostacolo sostanziale: lo sforzo della popolazione dei villaggi ad organizzarsi per difendere le proprie tradizioni e il proprio ambiente contro la rapida conversione delle terre agricole in allevamenti di gamberetti.

Nel 1992 i gandhiani Jagannathan e Krishnammal, insieme ai collaboratori del LAFTI (Land for Tillers Freedom) e attivisti locali intrapresero una marcia a piedi di un anno nel Distretto in cui si svolgevano le principali attività del LAFTI. Ogni giorno i marciatori si spostavano da un villaggio a un altro e organizzavano delle manifestazioni culturali e incontri serali per stimolare la formazione di comitati di villaggio intorno al problema delle terre, dell'educazione, della salute e dell'autonomia.

Lungo la costa una gran quantità di terreno fertile, tradizionalmente coltivato dalle popolazioni locali, era stata acquistata o presa in affitto dai capitalisti locali o da multinazionali per dare inizio ad allevamenti intensivi di gamberetti e moltissime persone avevano perso la loro unica fonte di reddito. L'economia in quell'area era basata quasi interamente sull'agricoltura e non c'era niente altro che queste persone possono fare oltre a coltivare la terra. Ma non è tutto.

Le vasche per l'acquacoltura vanno riempite in parte d'acqua salata e in parte d'acqua dolce, quindi queste industrie hanno iniziato a pompare acqua dolce dai villaggi creando in poco tempo scarsità d'acqua.

Per far crescere i gamberetti più rapidamente e proteggerli dalle malattie deve essere usata una gran quantità di agenti chimici, così l'acqua delle vasche si inquina rapidamente e deve essere cambiata spesso: il modo più semplice per farlo è scaricare l'acqua inquinata in mare. Per questo motivo lungo tutta la costa i pesci hanno iniziato a morire e la comunità dei pescatori ne è stata profondamente colpita. Adesso i pescatori devono spingersi al largo, ma non hanno barche appropriate e non possono di certo permettersele.

La stessa acqua delle vasche, salata e inquinata, penetra nel terreno e raggiunge le falde acquifere; molte persone nei villaggi hanno iniziato ad avere problemi alla pelle e agli occhi.

Dopo pochi anni le vasche diventano inutilizzabili e devono essere abbandonate, lasciando un terreno inutilizzabile, inquinato e salinizzato.

Un altro problema è che la foresta di mangrovie che offriva rifugio ai pesci che depongono le uova fra le sue radici, e costituiva un protezione naturale dagli uragani e dall'erosione marina, è stata distrutta lungo tutta la costa per costruire le vasche.

Guidata dai gandhiani Jagannathanm e Krishnammal la popolazione locale si organizzò in un movimento nonviolento di protesta che riuscì a portare la causa dei gamberetti di fronte alla Corte Suprema Indiana.

Per essere aiutati a decidere tra affermazioni e documentazioni molto contrastanti in proposito, i giudici richiesero che un istituto di ricerca governativo svolgesse un'indagine per esaminare l'impatto ambientale e sociale degli allevamenti di gamberetti sulle coste.

I risultati dell'indagine misero in evidenza i danni causati da questa attività, e alla luce di questo rapporto la Corte vietò la conversione di terra agricola ad allevamenti di acquacoltura e bloccò gli allevamenti in una parte del Tamil Nadu.

Questo fu un successo per il movimento del LAFTI e per gli ambientalisti - anche se relativo: le pressioni politiche e gli interessi economici sono molto forti e di fatto la questione è - tra processi e ricorsi - attualmente ancora aperta perchè, come Jagannathan ha sostenuto in varie occasioni, "gli Atti di Stato e gli ordini della Corte Suprema" rimarranno sulla carta se non si crea il potere della popolazione".


Per far conoscere e appoggiare i progetti già avviati dal LAFTI (Land for Tillers Freedom) in India, Overseas e il Centro Studi Sereno Regis di Torino hanno promosso la pubblicazione della loro biografia curata da Laura Coppo presso l'Editrice Emi ( 2002, pagine 223). Il libro può essere richiesto a: OVERSEAS onlus - Via Castelnuovo R.ne, 1190 - 41057 Spilamberto (MO) Telefono: 059-785425 mobile 348 2518421  E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

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