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Diritti Umani

Armi da fuoco

Delle sue armi ha fatto i suoi dei.

Quando vincono le sue armi, é lui a essere sconfitto.

 
RABINDRANATH TAGORE

E' spaventoso che centinaia di milioni di armi da fuoco possano essere acquistate in tutto il mondo per una modesta somma di denaro. Le Nazioni Unite cercano un modo per contenere il commercio internazionale di armi, ma i loro sforzi sono contrastati, in modo aperto osotterraneo, dai paesi che le fabbricano e le esportano. Vale la pena di ricordare alcuni semplici dati. Un'arma da fuoco è un dispositivo espressamente progettato per uccidere.

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Premi Nobel per la Pace


Dal testamento di Alfred Nobel:

"Ogni mia proprietà sarà devoluta nel seguente modo: il capitale, investito in solidi titoli azionari dai miei esecutori testamentari, andrà a formare un fondo i cui interessi saranno distribuiti ogni anno sotto forma di premi a coloro che nell’anno precedente avranno dato il maggior contributo all’umanità. L’ammontare degli interessi sarà diviso in cinque parti uguali che saranno attribuite come segue: una parte alla persona che avrà fatto la scoperta o l’invenzione più importante nel settore della fisica; una parte alla persona che avrà fatto la scoperta o il progresso più importante nel campo della chimica; una parte alla persona che avrà fatto la scoperta più importante nell’ambito della medicina; una parte alla persona che avrà prodotto in campo letterario l’opera più importante di tendenza idealista; e una parte alla persona che avrà compiuto il lavoro migliore o più importante per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli armamenti e per il mantenimento della pace o per l’organizzazione di convegni sull’argomento. I premi per la fisica e la chimica saranno assegnati dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze; quello per la medicina dal Karolinska Institutet di Stoccolma; quello per la letteratura dall’Accademia di Stoccolma e quello per la pace da un comitato di cinque persone scelte dallo Storting, il Parlamento norvegese. È mio esplicito desiderio che nell’assegnazione dei premi non si tenga in considerazione la nazionalità del candidato, ma che ricevano il riconoscimento i più degni, che siano scandinavi o meno".

Pur con qualche distinguo (dettato dal "tribunale a posteriori" della Storia) queste grandi personalità, uomini e donne, che si sono prodigate, con grande fatica e sacrifici personali, per la pace nel mondo meritano di essere meglio conosciute e apprezzate. Il loro messaggio e l'esempio della loro vita e delle loro fatiche, possono essere di insegnamento all'umanità intera, soprattutto alle nuove generazioni.

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Premio_Nobel_per_la_Pace

http://nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/


 

L'appello sottoscritto da 110 premi Nobel

 

"I PROSSIMI CENTO ANNI"

 

La minaccia maggiore per la pace mondiale verrà negli anni a venire non dai comportamenti irrazionali di stati o individui, ma dalle legittime richieste dei diseredati del mondo. La maggioranza di queste persone povere e senza diritti vive un'esistenza marginale nei climi equatoriali. Il surriscaldamento del pianeta - originato non da loro, bensì da pochi ricchi - colpirà soprattutto le loro fragili ecologie. La loro situazione sarà disperata e manifestamente ingiusta. Perciò non ci si può attendere che essi si accontentino sempre e comunque di aspettare la beneficenza dei ricchi. Se permetteremo dunque alla potenza devastante delle armi moderne di diffondersi in questo esplosivo paesaggio umano, innescheremo una conflagrazione in grado di travolgere tanto i ricchi quanto i poveri. La sola speranza per il futuro riposa nella collaborazione internazionale, legittimata dalla democrazia.

È tempo di voltare le spalle alla ricerca unilaterale di sicurezza, in cui noi cerchiamo di rifugiarci dietro ai muri. Dobbiamo invece insistere nella ricerca dell'unità d'azione per contrastare sia il surriscaldamento del pianeta che un mondo armato.

Questi obiettivi gemelli costituiranno due condizioni fondamentali per la stabilità, mentre ci muoveremo verso il più ampio grado di giustizia sociale che, esso solo, può dare una speranza di pace. Alcuni degli strumenti legali necessari sono già a portata di mano, come il trattato sui missili anti-balistici (Anti-Ballistic Missile Treaty), la convenzione sui cambiamenti climatici (Convention on Climate Change), i trattatti strategici sulla riduzione di armi (Strategic Arms Reduction Treaties) e il Trattato sul bando dei test nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty). In quanto cittadini preoccupati, chiediamo a tutti i governi di impegnarsi per questi obiettivi, che costituiscono dei passi in avanti affinché il diritto prenda il posto della guerra.

Per sopravvivere nel mondo che abbiamo trasformato dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Mai come oggi, il futuro di ciascuno dipende dal contributo di tutti.

11 dicembre 2001

http://www.nobelforpeace-summit.org/index.asp

http://www.nobelforpeace-summits.org/

Il Nobel Peace Center di Oslo (Norvegia)

http://www.nobelpeacecenter.no/?1=1


I Nobel per la Pace: una mostra per celebrarli94 ritratti a china e carboncino realizzati dall’artista ungherese Monika Hafner che, dal 2003, si dedica a questo progetto aggiornandolo di anno in anno per una mostra che continui a vivere e a trasmettere speranza.

http://www.kataweb.it/multimedia/media/2325776


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DIRITTO ALL’ALIMENTAZIONE


La prima affermazione del credo secondo cui ogni essere umano nasce con il diritto intrinseco all’alimentazione viene attribuita ad un famoso discorso del 1941 di Franklin Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti d’America. Si trattava del cosiddetto “discorso sulle quattro libertà”: libertà di parola, libertà di culto, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti paesi hanno abbracciato il principio delle quattro libertà. Libertà che furono incluse nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata nel 1948 in una delle prime iniziative dell’Assemblea generale delle nuove Nazioni Unite. L’articolo 25 della Dichiarazione riguarda specificamente il diritto all’alimentazione: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita adeguato a garantire la salute e il benessere per sé e la propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione…». Il diritto all’alimentazione è incluso nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali adottato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976. Ad oggi, sono 156 i paesi che lo hanno ratificato.

L’articolo 11 del Patto riconosce «il diritto di ogni individuo ad un tenore di vita adeguato... con particolare riguardo ad un’alimentazione adeguata» e «il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame ...».Una volta ratificato, il Patto diventa legalmente vincolante per lo stato ratificante; il governo deve quindi prendere misure adeguate per la sua progressiva realizzazione, adottando e applicando apposite leggi. Nel tempo, con l’applicazione di tali normative e la giurisprudenza dei tribunali chiamati a risolvere le controversie in materia, questo diritto si sta gradualmente rafforzando e consolidando all’interno dei sistemi giuridici nazionali.  Sul piano internazionale, il diritto all’alimentazione è di nuovo salito alla ribalta nel 2004 con l’adozione unanime da parte del Consiglio della FAO delle “Voluntary Guidelines on the Progressive Realization of the Right to Adequate Food in the Context of National Food Security” (“Linee guida volontarie a sostegno della realizzazione progressiva del diritto ad un’alimentazione adeguata nel contesto della sicurezza alimentare nazionale”), conosciute informalmente come “Linee guida sul diritto all’alimentazione”.

Queste linee guida forniscono un aiuto concreto ai governi per adempiere i loro obblighi.L’adozione unanime delle Linee guida sul diritto all’alimentazione da parte del Consiglio della FAO nel 2004 è stata una delle tappe più importanti nella storia del diritto all’alimentazione: è stato infatti proprio in questa occasione che la comunità internazionale si è accordata per la prima volta sul pieno significato di questo diritto.Queste linee guida colmano il divario fra il riconoscimento legale e l’effettiva realizzazione del diritto, offrendo un corpus coerente di raccomandazioni strategiche a governi, società civile e altri partner.

Le 19 linee guida riguardano la politica di sviluppo economico, le questioni legali e istituzionali, la politica agricola e alimentare, la nutrizione, la sicurezza alimentare e la tutela dei consumatori, l’opera di educazione e sensibilizzazione, le reti sociali di sicurezza, le situazioni di emergenza e la cooperazione internazionale.


 

Per informazioni generali:

http://www.fao.org/fileadmin/templates/wfd2007/pdf/WFDLeaflet2007I.pdf 

Per approfondimenti:

http://www.fao.org/righttofood/index_en.htm

http://www.fao.org/legal/rtf/mooreit.pdf

http://www.hrea.org/index.php?doc_id=405#tophttp://www.fian.org/

http://www.maritain.org/nuovo/ITALIANO/Attivita/Alimentazione/alimentazione.html

http://www.inran.it/pubblicazioni_divulgative/dossier.pdf 

Per le scuole:

http://www.fao.org/kids/it/righttofood.html

http://www.feedingminds.org/cartoon/rtf_it.htm

http://www.fao.org/docrep/009/a1301i/a1301i00.htm

ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/009/a1301i/a1301i03.pdf

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Verso il riconoscimento dei diritti degli ultimi popoli…


Verso il riconoscimento dei diritti degli ultimi popoli… 

Dopo 22 anni di dibattiti e negoziazioni, il 19 settembre 2007 le Nazioni Unite hanno approvato a New York la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni. Ha votato a favore la maggioranza dei paesi aventi diritto al voto: 143 i voti a favore, 11 gli astenuti.Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti hanno votato contro. Come sottolineato dal Boscimane Jumanda Gakelebone, esponente dell’organizzazione First People of Kalahari, è grazie a questo documento che i governi non potranno più trattare i popoli tribali di tutto il mondo come cittadini di seconda classe, cacciandoli dalle loro terre.La dichiarazione riconosce i diritti dei popoli indigeni alla proprietà della loro terra e a vivere come desiderano. Afferma, inoltre, che non possono essere sfrattati dai loro territori senza il loro libero e informato consenso.
“Un passo storico - scrive
l’Associazione per i popoli minacciati - perchè con questa dichiarazione per la prima volta verranno riconosciuti esplicitamente anche i diritti collettivi dei popoli indigeni”.L’associazione  chiede adesso alla comunità internazionale di “prendere sul serio la sua stessa decisione e di sottoporre ad esame ed a nuove negoziazioni con le popolazioni direttamente interessate tutti i progetti di mega dighe, di disboscamento e di produzione di materie prime su territorio indigeno”.

Sono circa 370 milioni gli appartenenti ai popoli indigeni nel mondo, distribuiti in 5000 comunità indigene, presenti in 75 stati. Tra di loro circa 84 milioni di Adivasi in India, i Sami del Nord Europa, i circa 40 milioni di Indiani in tutta l’America, gli Aborigeni in Australia, i Maori in Nuova Zelanda, i San nell’Africa meridionale. In Italia è l’associazione Survival che si occupa dei diritti dei popoli tribali, che adesso si augura che il Governo italiano voglia ratificare al più presto la Convenzione ILO 169, necessaria per dare concreti strumenti giuridici alla tutela dei diritti dei popoli indigeni del mondo.

Gli ultimi… degli ultimi 

Recentemente alcuni membri di una delle ultime tribù incontattate rimaste al mondo sono stati fotografati nei pressi del confine tra Perù e Brasile. Le foto sono state scattate durante diversi voli effettuati su una delle parti più remote della foresta pluviale amazzonica, nello stato brasiliano di Acre. L’attività di disboscamento illegale sta spingendo le tribù isolate peruviane oltre il confine e potrebbe metterle in conflitto con i circa 500 Indiani isolati che vivono sul versante brasiliano.
“Ciò che sta accadendo in questa regione è un enorme crimine contro la Natura, i popoli indigeni e la fauna, e costituisce un’ulteriore testimonianza della totale irrazionalità con cui noi, i cosiddetti “civilizzati“, trattiamo il mondo”, ha dichiarato un esponente del FUNAI, il dipartimento governativo per gli affari indigeni del Brasile.
Esistono più di cento tribù incontattate in tutto il mondo e più della metà vivono tra Brasile e Perù: su tutte grava la seria minaccia di essere costrette con la forza a lasciare la loro terra, di essere uccise e decimate da malattie a loro sconosciute.
"I popoli indigeni che vivono senza alcun contatto con il mondo esterno sono un centinaio in tutto il mondo", spiega Francesca Casella, direttrice di Survival Italia. "Di loro si sa molto poco, se non che il loro isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere alle invasioni dei coloni, dei tagliatori di legno, delle compagnie petrolifere e dei latifondisti. Questi popoli vivono ancora oggi in fuga perenne. Molti hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano dell’uomo bianco, nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto di malattie per loro letali. Ognuno di questi popoli è unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare che la storia si ripeta."



Informazioni generali Sui Nativi americani: http://it.wikipedia.org/wiki/Nativi_americani

Sugli Inuit: http://it.wikipedia.org/wiki/Inuit

Sugli Aborigeni australiani: http://it.wikipedia.org/wiki/Aborigeni_australiani

Sui Popoli indigeni del Brasile: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_indigeni_del_Brasile

Sui Popoli indigeni della Colombia: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_indigeni_della_Colombia

Sui Pigmei Baka dell’Africa Equatoriale: http://www.pygmies.info/baka/pigmei-baka.html

Sui Boscimani: http://it.wikipedia.org/wiki/Boscimani

Sui Popoli nomadi: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_nomadi 

Sulle minacce ai Popoli indigeni:

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop1.html

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop2.html

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop3.html 

Sulla tutela internazionale:http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/

http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/doc_sessions.htm 

Organizzazioni non governative:http://www.international-alliance.org/

http://www.urihi.org/urihi.html

http://www.jpdutilleux.com/roothtmls/map.html


 

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IL “POPOLO GENTILE”

                                        VIDEO: Viaggio in Tanzania 


Serviranno delle pillole contro l’obesità a salvare i Boscimani dall’estinzione?

Il giorno che moriremo una lieve brezza cancellerà le nostre impronte sulla sabbia.
Quando calerà il vento chi dirà nell’eternità che una volta camminammo qui, all’alba del tempo?
(poesia boscimane)


Un cactus originario della regione del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, utilizzato dalla tribù boscimane dei San per placare la fame durante le lunghe battute di caccia, verrà utilizzato per produrre un rimedio contro l’obesità. Il cactus Hoodia, che può raggiungere un’altezza di circa 180 centimetri, contiene un principio attivo che, come dimostrato dalle ricerche, potrebbe ridurre l’appetito, e quindi l’apporto calorico giornaliero, addirittura di 2.000 calorie.
Tale rimedio è stato originariamente brevettato dal Consiglio sudafricano per la ricerca scientifica e industriale (CSIR) e concesso in licenza alla società britannica Phytopharm. Il gigante farmaceutico Pfizer è attualmente impegnato nella produzione di una pillola basata su questa pianta - denominata P57 - che l’azienda auspica possa tenere lontano i morsi della fame, esercitando un enorme impatto sul mercato mondiale dei prodotti dimagranti, il cui valore si aggira attorno ai 6 miliardi di Euro. Più di 100 milioni di persone in tutto il mondo sono considerate a rischio di disturbi legati all’obesità, come le cardiopatie e il diabete. Pfizer si augura che il nuovo rimedio, già testato su volontari sani in Gran Bretagna, possa essere disponibile sotto forma di pillole a partire dal 2007.
Phytopharm e il CSIR hanno ricevuto pesanti critiche per aver concluso accordi finanziari volti allo sviluppo del farmaco, senza interpellare la tribù San, le cui tradizionali conoscenze hanno condotto alla scoperta delle proprietà antiappetito della Hoodia. Il presidente e direttore generale di Phytopharm, Richard Dixey, si è giustificato affermando di ritenere che questo popolo nomade fosse ormai estinto. Dopo aver scoperto che circa 100.000 San vivono ancora in Angola, Sudafrica, Botswana e Namibia, è stato siglato un accordo in base al quale la tribù boscimane riceverà una percentuale dei profitti derivanti dalla vendita del farmaco.
L’esistenza stessa della tribù San era da tempo messa in discussione, poiché la dispersione del popolo e la mancanza di opportunità rappresentano una concreta minaccia di estinzione. In base al nuovo accordo, si spera di generare milioni di Euro l’anno per finanziare programmi di istruzione e creare posti di lavoro, nonché per consentire ai San di acquistare della terra. Tutto ciò dovrebbe garantire un futuro migliore per la tribù e per quanti potranno trarre beneficio dal nuovo farmaco. Per un motivo o per l’altro, sembra proprio che la sopravvivenza dei San debba molto alle speciali proprietà del cactus Hoodia.
Forse qualcuno potrà dubitare della buona fede del presidente e direttore generale della Phytopharm ma... chi conosce davvero questi “selvaggi” che molti “interessati” vorrebbero in via di estinzione?


Boscimane? Chi era costui?

Uomini del bush (boscaglia): questo significa “bosjemans”, il vocabolo boero che da tre secoli si utilizza per indicare i San, probabilmente il gruppo etnico più antico dell’Africa australe che popolava dal Capo di Buona Speranza fino all’Angola e alla Rhodesia.
Tradizionalmente nomadi, erano i signori incontrastati delle savane in cui vivevano di caccia e raccolta di radici, miele e frutti selvatici. Non avevano capi, moneta, proprietà privata. Nel deserto furono costretti a ritirarsi quando altre popolazioni di allevatori e agricoltori invasero le loro terre.
Il sistema sociale dei boscimani è molto particolare: come detto non esistono capi, le decisioni vengono prese collegialmente e le donne partecipano attivamente alle discussioni. Gli individui possiedono solo pochi oggetti personali, i beni appartengono alla comunità. La solidarietà per questo popolo è un principio fondamentale: i frutti della caccia e della raccolta vengono distribuiti tra tutti e di quanto viene raccolto nulla viene sprecato.
Del resto, per popoli la cui sopravvivenza dipende strettamente dalla conoscenza e dalla integrità dell’ambiente in cui vivono, l’ecologia non è un “lusso”... Ciò è tanto più vero per i popoli nomadi. Suddivisi in gruppi di trenta o quaranta persone, quando nel deserto trovano un albero carico di frutti, smettono per un po’ di tempo il loro vagabondaggio e costruiscono delle capanne provvisorie nella steppa sabbiosa.
Tra le caratteristiche più “sorprendenti” dei boscimani va ricordata senz’altro una formidabile conoscenza della natura, dei fenomeni fisici e biologici. Ma anche nozioni approfondite di medicina, botanica ed etologia. Dalle tracce lasciate sul terreno riescono a determinare il sesso, l’età, la velocità di spostamento e altre informazioni cruciali su un animale.
I boscimani vivono nell’ambiente, non lo dominano: sono predatori e prede, adattati (o costretti) a vivere in condizioni estremamente difficili, dove l’acqua è la risorsa più importante e più incerta. Per conservarla si utilizzano uova di struzzo: riempite d’acqua, vengono distribuite sul territorio e utilizzate come serbatoi d’emergenza nei periodi di maggiore siccità. Le donne raccolgono ben 105 specie di piante e, quando capita, anche serpenti commestibili, insetti, bruchi, uova di uccelli, miele, tartarughe, piccoli roditori. Di ogni pianta conoscono il valore nutritivo, le proprietà medicinali, la possibile utilizzazione come veleno, come cosmetico. Delle prede abbattute i boscimani non sprecano assolutamente nulla: dalle parti commestibili fino ad arrivare alle pelli e alle ossa tutti trovano vari impieghi, come nel caso della vescica (è usata come contenitore) o dell’intestino (è usato come corda). Non si spreca nulla neanche nel regno della natura: un cacciatore non ammazza più del necessario, neppure se si trova di fronte a un intero branco di animali. Le donne non raccolgono mai le piante fino al loro esaurimento, per non compromettere il futuro raccolto.
I boscimani, insomma, sono uno dei pochi popoli della Terra che ha vissuto per millenni in un ambiente senza deteriorarlo o comunque cambiarlo, integrando... “cultura e natura”.


Un po’ di storia etnologica

I boscimani (San) fanno parte del gruppo etnico dei Khoisan insieme a coloro che venivano un tempo chiamati ottentotti (Khoi).
Sono caratterizzati da tratti somatici ben diversi dai neri di origine Bantu: sono molto più piccoli di statura ed hanno carnagione giallo-bruna. Gli uomini sono magri e le donne sono grasse con sopracciglia folte: sono bassi (la loro statura oscilla tra 1,40 e 1,60 metri), di carnagione giallo-rossastra, zigomi alti con gli occhi allungati come quelli dei mongoli, i capelli neri e ricciuti disposti “a grani di pepe”, la pelle raggrinzita solcata da rughe profonde.
Parlano lingue curiose, caratterizzate da affascinanti successioni di schiocchi metallici e suoni scoppiettanti prodotti dalla lingua contro il palato, peraltro ormai quasi svanite: un patrimonio tramandato oralmente, ricchissimo di leggende, canzoni, danze rituali. Nonostante la grande quantità di gruppi e clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sono accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e abitudini simili.  

Già ventimila anni fa (Tarda Età della Pietra) gruppi di cacciatori-raccoglitori, progenitori degli attuali boscimani, abitavano tutta l’Africa meridionale. Grazie al loro nomadismo e alla loro abilità nel procurarsi il cibo, i piccoli uomini dalla pelle giallo-bruna e dagli zigomi pronunciati erano in grado di far fronte a condizioni climatiche estreme. La splendida arte rupestre che hanno lasciato ne è testimone: la storia di questo popolo è scritta nella roccia. I piccoli signori delle savane hanno infatti lasciato straordinarie testimonianze della loro presenza millenaria, dipingendo sulle pareti granitiche delle caverne (dove abitavano in piccoli gruppi) o lasciando incisioni sui massi delle pianure australi.
Le loro stupende pitture sono state scoperte in Tanzania, in Etiopia, in Uganda e nel Sudan meridionale, insieme ad alcuni dei loro manufatti, quali per esempio le sfere di pietra forata ancora in uso per appesantire le zappe. Alcune di queste opere risalgono a oltre 25 mila anni fa e sono autentici cimeli di uno stupefacente museo della storia, grazie ai quali gli studiosi hanno potuto ricostruire (almeno in parte) le radici più antiche e profonde della civiltà del Kalahari.
Con l’Età del Ferro (duemila anni fa), l’introduzione del bestiame domestico ad opera di etnie Bantu giunte da Nord, dalla corporatura più possente e dal temperamento meno remissivo, fece convertire i nomadi in pastori semi-nomadi, soprattutto nelle aree costiere dell’attuale Sud Africa. Questi si chiamavano Khoikhoi (“gente vera”, da Khoe = persona) per distinguersi dai gruppi rimasti cacciatori, che non possedevano bestiame, che i pastori chiamavano San (“l’altra gente”).
Al loro arrivo, i colonizzatori europei chiamarono i Khoikhoi “ottentotti”, e i San “bushmen” (boscimani). Quest’ultimo era un termine dispregiativo, riferito a persone che si sostentano con quello che trovano nel bush (la boscaglia).
Khoikhoi e San, che hanno dunque un’origine genetica comune, vengono tuttora considerati rispettivamente “pastori” e “cacciatori-raccoglitori”, ma gli antropologi ormai tendono ad adottare il termine Khoisan per abbracciare tutti i gruppi: nonostante siano frazionati in numerosi clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sopravvissuti sono infatti accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e caratteristiche fisiche simili.
Con l’arrivo dei popoli Bantu dal Nord e, nei secoli più recenti, degli europei, i Khoisan hanno perso la possibilità di rimanere nomadi o seminomadi, e in generale indipendenti.
I veri problemi cominciarono due secoli fa, allorché i primi coloni olandesi penetrarono nella regione, confiscando pozzi, terre e selvaggina. I San, trattati alla stregua di animali, furono cacciati a fucilate, catturati e costretti a lavorare come schiavi nelle fattorie dei bianchi. Molti morirono a seguito di micidiali epidemie di vaiolo e morbillo. Fu un autentico genocidio.
I conflitti e le malattie hanno decimato le loro popolazioni, i superstiti sono stati forzatamente “integrati” nell’economia agricola delle colonie, soprattutto in qualità di servitori. Alcuni si sono congregati intorno alle missioni dove era possibile continuare ad esercitare la pastorizia.

 


XX secolo: cultura e uomini a rischio di estinzione

L’erosione dei gruppi, la mescolanza con altre etnie e, nel ventesimo secolo, la segregazione in zone a loro assegnate, hanno portato i Khoisan alla perdita dell’identità e del patrimonio culturale originario.
La documentazione delle lingue, delle narrazioni orali e del sapere tradizionale, costituiscono l’eredità culturale dei boscimani. Molti studiosi occidentali e sudafricani hanno portato alla nostra conoscenza questo patrimonio, nelle facoltà di antropologia e affini; ma gli stessi Khoisan, che non hanno fini accademici, sono solo recentemente divenuti tragicamente consapevoli del rischio che la loro cultura corre di scomparire.
A partire dagli anni ‘90, finalmente, i cambiamenti sociali del Sud Africa e della Namibia hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei Khoisan. Alcune organizzazioni erano già nate grazie all’intervento di antropologi stranieri, altre sono sorte in anni recenti, volute e animate dagli stessi boscimani. Ha preso corpo, così, un vero e proprio movimento per i diritti dei Khoisan, articolato in molti progetti che fanno capo ad una organizzazione-ombrello, WIMSA.
I Khoisan sono impegnati a migliorare la qualità della loro vita, a rivendicare i diritti sulle loro terre di appartenenza, a guadagnarsi il rispetto degli altri popoli dell’Africa e del mondo, a mantenere viva la loro tradizione culturale ma a forgiarne anche una moderna. Infatti, mentre gli anziani boscimani considerano fondamentale la loro antica cultura, in molti casi i loro figli vorrebbero occidentalizzarsi, e nessuno ha il diritto di impedirglielo. Solo considerando i boscimani come civiltà viva, attiva e in trasformazione, si dà loro una chance di inserirsi nel mondo di oggi con pari dignità. Non considerandoli una civiltà in via di estinzione.


I boscimani oggi

I San sono ormai coscienti del fatto che la perdita del rapporto con la loro terra significa anche la distruzione del loro singolare sistema di vita e la scomparsa definitiva delle loro conoscenze circa la sopravvivenza nel deserto.
Oggi i boscimani sono circa 90 mila: la metà sta in Botswana, tra il deserto del Kalahari (grande come la Francia) e le paludi dell’Okavango; il resto vive in Namibia (38000), Angola (6000), Sud Africa (4500), Zambia (1600), Zimbabwe (1200). Solo poche centinaia - appartenenti prevalentemente alle tribù Gana e Gwi - sono riusciti a mantenere uno stile di vita tradizionale, in gran parte auto-sufficiente, in cui la caccia e la raccolta rivestono un ruolo centrale e le esercitano ancora in settori inaccessibili del Kalahari.
Attualmente la maggior parte dei boscimani non vive più della caccia, come tradizionalmente dovrebbe essere, ma ha iniziato a coltivare mais e miglio, e a tenere capre, asini e cavalli. Sradicati dalla loro terra, molti boscimani dipendono completamente dall’elemosina del governo, la disperazione ha comportato l’alcolismo e di conseguenza una totale miseria. Sono costretti a vivere in squallidi insediamenti costruiti appositamente per loro dove ricevono misere sovvenzioni dallo Stato, ma dove non è possibile cacciare né raccogliere. Lavorano sottopagati in allevamenti e miniere (alcune ragazze si prostituiscono). A tanti non resta che mendicare e ubriacarsi.
Come detto, dagli anni ‘90 i cambiamenti sociali dei paesi vicini (Sud Africa e Namibia) hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei discendenti dei San, mentre in Botswana (dove sono più numerosi) la loro situazione rimane grave. Per questo nel 1986 è nato il Kuru Development Trust, per fornire assistenza ai boscimani un tempo nomadi e ora divenuti stanziali per lavorare nei ranch dei boeri discendenti dai colonizzatori.
L’organizzazione Kuru (che significa ‘farè) è cresciuta fino a consolidare con altri enti del subcontinente un vero e proprio movimento pro-San, a cui fanno capo anche i boscimani/khomani del Sud Africa. Oggi Kuru sviluppa progetti di autosostentamento presso le comunità più emarginate, ed è diretto da boscimani scelti tra i villaggi che partecipano ai progetti con gruppi di lavoro. Le attività vanno dall’allevamento di ovini, caprini e asini, alla coltivazione di funghi e frutta.
Dal 1990, grazie alla creazione di un laboratorio d’arte, si sta affermando uno stile di arte contemporanea boscimane che ha già ricevuto molti riconoscimenti internazionali. Oggi le loro mostre colorate stanno girando il mondo, affermando il loro messaggio di appartenenza al Kalahari, il vasto territorio di wilderness che occupa parte dell’Africa meridionale.
Una coalizione di ONG locali sta attualmente conducendo trattative con il governo del Botswana (e una campagna internazionale) al fine di indurlo a riconoscere il diritto dei boscimani a vivere nel Kalahari centrale: lo scopo è di ottenere terra per i San, con il procedimento di “reclamo delle terre” analogo a quello in atto in Sud Africa.
Un ente-ombrello sorto recentemente su richiesta dei San di cinque paesi dell’Africa meridionale (WIMSA) elabora anche progetti di sviluppo adatti alle specifiche comunità. In Italia questi progetti sono appoggiati e fatti conoscere dall’associazione culturale Heritage, eletta dai leader San in assemblea come “gruppo di supporto dall’Italia e portavoce”.
Il grande problema di questo popolo non è stato solo quello di aver loro progressivamente negato l’accesso alle risorse naturali (da cui dipende la loro esistenza così interconnessa con i ritmi della natura), ma anche che la loro dignità è stata mortificata da tutti i gruppi etnici del subcontinente.
Le autorità considerano i boscimani “primitivi”, “essere inferiori”, “fermi all’età della pietra”, e li disprezzano per la loro diversità... In realtà si tratta di un popolo tenacemente attaccato alle proprie radici e alla propria indipendenza, che nonostante secoli di violenze, continua a resistere. Un popolo fiero, nobile, che non finisce di affascinare e stupire gli studiosi.


Zoo umano o turismo etico?

Esistono numerosi progetti di promozione turistica delle terre boscimani: politici e affaristi spingono per fare spazio a nuovi lussuosi lodge destinati a turisti danarosi. I boscimani più fortunati (si fa per dire!) sono stati arruolati da impresari senza scrupoli che li hanno trasformati in attrazione turistica. Li hanno sistemati in apposite capanne costruite nei pressi di bungalow lussuosi e hanno stampato le loro immagini su depliant che pubblicizzano “emozionanti visite ad un vero villaggio preistorico”.
A lanciare l’idea dell’etno-show è stato un sudafricano, Peter De Waal, proprietario della riserva naturale di Kagga Kamma (260 km a nord di Città del Capo). In questa riserva, De Wall ha radunato un piccolo gruppo di boscimani che un tempo viveva (tutt’altro che bene, a dire la verità) nel Parco Gemsbok Kalahari, ai confini con il Botswana. Gli ha offerto un rifugio dignitoso e un buon stipendio. I boscimani se lo guadagnano mostrando ai visitatori antiche pitture rupestri, confezionando ornamenti e facendo finta di prepararsi alla caccia con arco e frecce. Per una manciata di monete, rispolverano i perizoma di pelle e si mettono in posa per le foto. “Fermi così, sorridete, non guardate verso l’obiettivo”, si sentono ripetere tutti i giorni. Alla sera, su richiesta, possono anche mettersi a ballare: cantano e saltellano attorno al fuoco, con i tradizionali sonagli legati alle caviglie, illuminati dai flash dei turisti.  

Per evitare che escano dalla storia, seppur col loro inguaribile sorriso, qualcuno si sta muovendo per il loro riconoscimento come popolo e per ottenere una rappresentanza a livello politico e governativo: è John Hardbattle, figlio di una san e di un poliziotto scozzese, che si impegna da anni come interprete e difensore della cultura boscimane. È proprio con lui che è possibile provare un’esperienza unica al mondo: vivere con i boscimani nella Central Kalahari Game Reserve, imparando da loro tutto quello che rischia di andare perso per sempre. Dal 23 al 28 giugno, dal 28 giugno al 3 luglio e dal 3 all’8 luglio, Hardbattle si fa guida per un ristretto numero di persone (dieci per ogni turno) disposte a scoprire il san che c’è in loro. Gli ospiti dormono in tende mobili perfettamente attrezzate e mangiano ottimi pasti in stile occidentale, ma per il resto vivono a stretto contatto con i boscimani. Sperimentando, con gli uomini, la fabbricazione di archi e frecce, l’osservazione delle impronte, la caccia, la preparazione di medicine vegetali; e, con le donne, la raccolta delle piante, la lavorazione dei gusci delle uova di struzzo per farne utensili e gioielli, la concia e la tintura delle pelli. Nei tramonti infuocati e nelle notti stellate, canti e danze sprofondati nella magia del Kalahari.
I profitti di questa iniziativa saranno devoluti per l’acquisizione di terre per le comunità boscimane del Botswana.

 


Caccia proibita e acqua negata

Recentemente il governo del Botswana ha deciso di sgomberare i loro villaggi e deportare le comunità lontano dalle terre in cui hanno vissuto finora. “Sono uomini selvaggi” - dicono le autorità - “bisogna civilizzarli e integrarli al resto della società”. Con questo pretesto li si fa sloggiare dalla Central Kalahari Game Reserve, un’ampia zona protetta - una delle più grandi riserve naturali d’Africa - creata negli anni Sessanta proprio per tutelare i boscimani e gli animali da cui dipendevano. Il governo ha provato a convincere gli indigeni a spostarsi promettendo loro scuole, assistenza sanitaria, lavoro, piccoli appezzamenti di terra, bestiame e denaro contante (promesse quasi mai mantenute). In pochi però hanno risposto all’offerta. Così ha pensato di limitare in ogni modo la caccia, da cui dipende la sopravvivenza delle tribù, appellandosi alla necessità di conservare la fauna.
Poco importa se i boscimani hanno vissuto di caccia per secoli senza mai ammazzare un solo animale di troppo, poco importa se nessuna specie da loro cacciata è in pericolo di estinzione. Gli indigeni accusati di aver superato la quantità di cacciagione consentita (tre antilopi per persona all’anno) sono stati imprigionati e torturati dai funzionari del dipartimento faunistico: l’associazione boscimane First People of the Kalahari ha raccolto testimonianze di gente percossa, gettata a terra, minacciata col fuoco, legata per i piedi al paraurti delle auto. E le intenzioni del governo non sono neppure troppo velate: recentemente un ministro del Botswana, Margaret Nasha, ha paragonato la questione dei Boscimani a quella degli elefanti. “Tempo fa - ha spiegato in TV- abbiamo avuto un problema simile quando volevamo eliminare un certo numero di pachidermi...”.
Ultimamente, per intimidire le comunità e sollecitare gli sfratti, la polizia non ha esitato a penetrare con la forza nelle abitazioni dei boscimani, usando violenza su uomini e donne. Ma non è bastato: centinaia di persone hanno opposto resistenza e si sono rifiutate di lasciare le loro terre per “rimanere vicino alle tombe degli antenati”. Allora il governo ha deciso di giocare la sua ultima carta: a marzo di quest’anno ha ordinato la sospensione dell’approvvigionamento d’acqua ai villaggi delle tribù Gana e Gwi. In pochi giorni ha chiuso l’unico pozzo, smantellato la pompa, bloccato i rifornimenti con l’autocisterna. Lo ha fatto con la scusa di non poter sostenere i costi della fornitura d’acqua (3,28 euro per persona a settimana). Una scusa, appunto: il Botswana è il più grande esportatore di diamanti al mondo, una delle nazioni africane più ricche, e potrebbe permettersi la spesa senza problemi. Ma volendo, potrebbe anche evitare di usare i suoi soldi perché l’Unione Europea si è offerta di finanziare l’approvvigionamento. A tutt’oggi, però, il Botswana ha accuratamente ignorato la proposta.


Il business dei diamanti

Perché? Per quale motivo il governo è tanto interessato a far sloggiare i boscimani dalle loro terre ancestrali? “Probabilmente per potersi dedicare con tranquillità allo sfruttamento dei giacimenti diamantiferi presenti nella regione” spiega Francesca Casella, rappresentante dell’associazione Survival International. Con l’uso di misure repressive il governo del Botswana tenta di cacciare gli ultimi boscimani dal parco nazionale nella zona centrale del deserto del Kalahari, in modo da poter sfruttare indisturbatamente le ricche risorse di diamanti presenti nella zona.
Nel febbraio del 2002 circa 1.100 San (boscimani) vivevano ancora nel parco, grande 52.000 km2. Poi, come detto, il governo ha semplicemente tolto l’acqua: con la scusa della lunga siccità, tutte le riserve d’acqua sono state svuotate e le pompe smontate. Agli indigeni non è rimasta altra possibilità che trasferirsi in uno dei 63 villaggi d’evacuazione situati al di fuori della zona protetta. In Botswana ci sono circa 50.000 boscimani, ma grazie a questa campagna di trasferimento forzato, iniziata 17 anni fa, all’interno del parco vive ormai solo qualche dozzina di San.
La multinazionale De Beers, numero uno al mondo nel settore dei diamanti, ha già ottenuto importanti concessioni nella Riserva del Kalahari: ha già investito 32 milioni di euro per le prime trivellazioni di prova sul territorio tradizionale dei San. I boscimani si sono appellati all’Alta Corte di Giustizia del proprio paese. Chiedono che la Corte dichiari incostituzionale il loro trasferimento forzato e confermi i loro diritti territoriali. A causa di un errore di forma, la querela di 248 boscimani è stata respinta il 19 aprile scorso, ma poi riammessa a metà luglio grazie ad un processo d’appello.
In molte parti del mondo, i diritti dei popoli indigeni vengono tuttora disattesi o messi in discussione, non appena si scoprono risorse preziose sui loro territori. Numerose organizzazioni non governative si impegnano da anni affinché il numero più alto possibile di Stati firmi e ratifichi la Convenzione ILO (International Labour Organisation) 169, finora l’unico accordo internazionale che possa proteggere e dare voce ai diritti di circa 300 milioni di indigeni nel mondo. La ILO 169 fissa i diritti elementari degli indigeni, quali il diritto alla propria terra, ai propri stili di vita, al mantenimento della propria cultura e lingua. Anche l’Italia e la Germania fanno parte dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo.


Quale futuro per gli ultimi “selvaggi”?

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il periodo 1995-2005 ‘Decennio dei Popoli Indigeni’, riconoscendo anche che, più degli altri, i popoli indigeni sono custodi di un’eredità che ha urgenza di essere protetta: la Natura, poiché da essa dipendono molto più di noi, che abbiamo forgiato il territorio per assecondare le nostre esigenze.
Quello che i boscimani desiderano (così come altri popoli indigeni e chiunque altro essere umano su questo pianeta, credo...) è solo poter vivere sulla loro terra, liberi da aggressioni e intimidazioni, per continuare a provvedere a se stessi, utilizzando il territorio e accedendo liberamente all’acqua. È chiedere troppo?
Abbiamo visto come la sapienza di questo antico e pacifico popolo africano, come nel caso della ricerca di nuovi farmaci contro l’obesità, potrebbe essere ancora utile, sempre che essa venga adeguatamente riconosciuta.
Ma al di là di tutto, ciò che fondamentalmente andrebbe riconosciuto è il valore della vita di ciascun individuo e di ciascun popolo che, inserito nel suo ambiente e grazie all’adattamento a questo, può esprimere tutte le potenzialità insite nel suo DNA.
«Quando anche l’ultimo boscimane avrà abbandonato la sua cultura, un’immensa conoscenza sarà andata perduta... Ma soprattutto sarà scomparsa la loro profonda gentilezza» ha scritto Laurens van der Post, scrittore sudafricano che ha passato gran parte della sua vita con i San. Il DNA di questo “popolo gentile” rischia di smettere di lasciare le sue «orme leggere» su questa terra per lasciare spazio agli «uomini pesanti», quelli che calpestano, soffocano e stravolgono la natura.


Bibliografia e siti web

http://www.phytopharm.com/Platforms/MetabolicSyndrome_P57.shtml
Cordis Focus – n. 213, 23-27 gennaio 2003
http://www.heritage-org.com/
http://www.gfbv.it/
http://www.peacelink.it/
http://www.manitese.it/
http://www.survival.it/


Viaggio in Tanzania

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ALIMENTAZIONE E DEMOCRAZIA: NUOVI “CAMPI” PER COLTIVARE I DIRITTI UMANI

 


Il futuro della biodiversità è il nostro futuro di individui in un mondo globalizzato e la sua difesa, anche attraverso una informazione corretta e “libera” da pressioni di parte, rappresenta un baluardo contro monopoli economici che mettono in pericolo il reale esercizio dei principi democratici, nonché la salute e la qualità della vita.

«Il diritto all’alimentazione e alla nutrizione, al pari della dignità, è un diritto fondamentale identificabile e riconoscibile da ogni intelligenza e coscienza umana. Senza nutrizione e alimentazione non c’è vita e quindi neanche dignità, che è il diritto fondamentale all’identificazione biologica dell’essere umano» (F. Manzione, 2001).
Ma, come evidenziato dall’ultimo Vertice mondiale sull’alimentazione (FAO, Roma, 1996), ad oltre 800 milioni di esseri umani mancano alimenti sufficienti per soddisfare le proprie fondamentali necessità nutritive. Essi sono probabilmente quegli stessi 800 milioni di individui analfabeti, a cui manca un’adeguata assistenza sanitaria, che abbassano la media disponibilità di acqua per abitante mondiale, che vivono in un ambiente degradato, al limite del collasso ecologico, il che spesso li spinge, per questo insieme di condizioni naturali e sociali, a lasciare il proprio paese in cerca di luogo migliore in cui vivere la loro esistenza.
Per questi uomini e donne, in gran parte giovani e bambini, destinati probabilmente e in gran parte ad ignorare i loro legittimi diritti di esseri umani per condurre una vita degna di essere vissuta, ben poco si fa sia a livello internazionale sia nei singoli Paesi di appartenenza.
La cosiddetta “volontà politica” - l’impegno civile di battersi per sradicare fame, sete, analfabetismo, malattie infettive, degrado ambientale per gli esseri umani del proprio Paese o di quelli più o meno vicini – generalmente si manifesta, per lo più a parole, in occasione dei grandi vertici internazionali in cui tutti si è più buoni e concordi nello stilare documenti e dichiarazioni di principio che, in genere, lasciano tutto immutato.
Pur nel lodevole tentativo di confrontarsi sui suddetti problemi da parte delle organizzazioni internazionali, degli istituti di ricerca, delle Organizzazioni non governative l’approccio è generalmente monotematico e i tentativi di soluzione a quell’intricato nodo di questioni che va sotto il nome di “sottosviluppo” sono altrettanto limitati al tentativo di risoluzione solo di alcuni di essi.
Sia che si parli di Paesi in via di sviluppo che di quelli tecnologicamente avanzati, l’analfabetismo culturale e/o etico spinge a schierarsi in un “partito” dove il “pensiero unico” domina i suoi adepti ed impedisce di discutere obiettivamente di un qualsiasi problema per cercare, insieme a chi la pensa diversamente, una sintesi utile alla risoluzione dei problemi concreti che in ogni Paese non sono certo né pochi né semplici.
Il vero problema di fondo è in genere la non conoscenza di tutte le questioni in gioco (e questo può essere un limite dovuto all’attuale sistema di ricerca scientifico sempre più iperspecializzato, dove si lotta l’uno contro l’altro per il reperimento degli scarsi fondi per la ricerca) o la presa in considerazione solo di alcune variabili (per lo più quelle economiche o quelle più paganti dal punto di vista politico, il che si traduce in finanziamenti solo alle ricerche le cui ricadute siano visibili in termini di utili): così facendo si producono pseudo-soluzioni che talvolta finiscono con il contribuire all’ingarbugliarsi della matassa.


Informazione e disinformazione

Di questo stato di cose certamente gli scienziati hanno le loro responsabilità: l’informazione in materia per esempio di Organismi geneticamente modificati (Ogm) – a questo tema è stato dedicato un incontro di studio presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche lo scorso 14 febbraio – è stata lasciata per lo più nelle mani dell’industria del settore, che ne ha inevitabilmente sottolineato solo gli aspetti positivi finalizzati alla penetrazione commerciale, e a quelle della controparte istituzionale, i consumatori, giustamente diffidenti dopo i recenti scandali che hanno dimostrato tutta l’insipienza quando non anche il colpevole silenzio e/o l’omissione di informazione da parte della classe politica.
Secondo Roberto Defez – ricercatore dell’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR di Napoli e promotore di questa iniziativa – quella degli Ogm è una vera e propria campagna di disinformazione: «La Commissione europea ha recentemente reso noti i risultati di uno studio – vedi bibliografia – durato 15 anni, che ha impegnato centinaia di ricercatori pubblici con una spesa complessiva di 70 milioni di Euro, secondo il quale le piante geneticamente modificate non comportano alcun rischio né per la salute umana né per l’ambiente. Anzi, tenendo conto della tecnologia più precisa e dei maggiori controlli, si può dire che queste colture sono addirittura più sicure».
In effetti però nel documento della Commissione si possono rilevare, al di là dei toni trionfalistici, anche osservazioni critiche e quel sano dubbio sulla facile generalizzazione, dubbio che dovrebbe animare la ricerca pubblica rispetto a quella privata, inevitabilmente di parte ed orientata al profitto. Derek Burke, che è stato per 9 anni presidente del Comitato consultivo britannico per la sicurezza alimentare, sostiene che il sistema attualmente impiegato per valutare le piante geneticamente modificate «è un punto di partenza assai valido per porre domande» e ha aggiunto che «la scienza progredisce e più cose apprendiamo, più domande facciamo».
E proprio nel recentissimo documento della Royal Society britannica (vedi bibliografia) distribuito nel corso del Convegno di Roma, in cui si afferma che non c’è ragione di dubitare della sicurezza degli alimenti ottenuti da ingredienti geneticamente modificati attualmente disponibili, c’è anche un chiaro invito ad apportare miglioramenti ai metodi di valutazione della sicurezza, prima che sia annunciato il cessato allarme per il consumo da parte dell’uomo di un numero maggiore di alimenti provenienti dalle piante transgeniche (Commissione Europea, 2002).


Il caso “biotecnologie agricole”

Per quanto riguarda le problematiche di tipo agricolo-alimentare l’approccio “riduzionista” vede la soluzione, in Italia come dappertutto nel mondo, nell’applicazione di una terapia unica e infallibile: le biotecnologie. I “biointegralisti”, al contrario, sono convinti che per bloccare il dilagare dell’uso di Ogm in agricoltura e nei prodotti alimentari sia necessario chiudere i rubinetti del finanziamento pubblico alla ricerca.
Nel frattempo, mentre l’opinione pubblica del Vecchio Continente si interroga allarmata sulla sua sicurezza alimentare, l’Europa compra dall’estero soia, per lo più “made in USA”, per la produzione di mangimi per la zootecnia (lo scandalo della “mucca pazza” ci impedisce di usare farine di origine animale per nutrire il bestiame), soia che per il 95% è geneticamente modificata: noi tutti inconsapevolmente ne mangiamo da anni (la “tolleranza zero”si applica solo all’1% di soia prodotta in Italia). 

L’incontro svoltosi al CNR – al di là dei facili trionfalismi di quei genetisti che si credono in grado da soli di risolvere problemucci tipo “fame nel mondo”, “riduzione della biodiversità”, “bioterrorismo” – ha evidenziato tutti i limiti di un sistema di ricerca pesantemente condizionato dalla... ricerca di fondi (mi si passi il gioco di parole). Libertà = soldi? Per gli scienziati sembra proprio così: pur in presenza di “buone idee” o addirittura di brevetti già registrati, l’applicazione langue (il progetto “Biotecnologia” del CNR, che coinvolgeva 300 gruppi di ricerca, è morto per l’azzeramento dei fondi), mentre il “nemico” USA (ma non eravamo alleati sul fronte bellico?) aumenta gli stanziamenti. In realtà questa è una corsa alla competitività commerciale che l’Europa vuole almeno non perdere.
Secondo Edoardo Boncinelli (Direttore del Sissa, la Scuola internazionale di studi superiori di Trieste) in Italia sussiste un problema di mentalità («i governi succedutisi in questi anni hanno tralasciato la questione ricerca») e di scarso flusso di finanziamenti tra l’industria e il mondo della ricerca scientifica.
«Per ciò che riguarda poi i consumatori europei – ha evidenziato il prof. Prakash, uno dei maggiori sostenitori del biotech a livello mondiale – il nodo della questione rimane quello di avere un’autorità che sia assolutamente seria, imparziale e che operi in base a criteri scientifici rigorosi: questa è la strada scelta negli Usa, dove alla fine il consumatore ha libertà di scelta di consumare o meno gli Ogm.»
Se le cose stanno davvero in questi termini, resta da spiegare il perché di tanta paura nei confronti degli Ogm. «Nella pubblica opinione – ha spiegato Defez – prevale spesso il lato emotivo su quello razionale. Ma una maggiore informazione può senz’altro favorire lo sviluppo di una tecnica che, come riconosce anche l’ultimo rapporto dell’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, rappresenta probabilmente l’unico strumento per incrementare la produzione agricola nelle aree ecologicamente marginali del pianeta».

 


Le alternative esistenti all’impero della “monocultura”

Anche se quel “probabilmente” pone il beneficio del dubbio, l’affermazione riferita da Delfez porta inevitabilmente acqua al mulino dei sostenitori delle biotecnologie come sole “armi intelligenti” per la vittoria nella guerra alla fame nel mondo.
Purtroppo, al contrario delle molte guerre combattute recentemente senza neanche attendere la loro formale dichiarazione, su questo fronte moltissime sono state le roboanti dichiarazioni non solo di guerra ma perfino di vittoria, puntualmente sconfitte dai fatti.
Come più volte esposto sulle pagine di questa rivista, la “guerra” si dovrebbe combattere su più fronti (economico, sociale, culturale) e non solo su quello strettamente tecnico-produttivo: ed anche su questo versante un approccio basato anche solo sul buon senso ci dovrebbe indurre a studiare strategie d’attacco diversificate (mi si scusi per il linguaggio “bellico”, in genere antitetico al mio pensiero...).
Su queste tematiche si è tenuto ad Orvieto lo scorso 22 dicembre un interessante incontro con il prof. Miguel A. Altieri, docente di Agroecologia presso l’’Università di Berkeley (California) e Coordinatore dei Programmi di Sviluppo per l’Agricoltura Sostenibile delle Nazioni Unite su “Tradizione alimentare e bioagricoltura mediterranea nell’era della globalizzazione: la sfida della biodiversità, una grande opportunità da non perdere”.
Preceduto dalla proiezione della video-inchiesta sui cibi transgenici “Il gene sfigurato”, realizzata dal giornalista Carlo Pizzati per la trasmissione “Report” di Rai Tre e vincitrice del premio Prix Leonardo Giornalismo Scientifico, l’intervento del prof. Altieri ha sottolineato i rischi dell’attuale industrializzazione della produzione agricola, mettendo altresì in risalto le concrete alternative esistenti nel mondo per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile (vedasi al riguardo il suo interessante sito web riportato in bibliografia).
I sistemi agricoli sviluppati con creatività infinita dagli agricoltori di ogni parte del mondo per vincere la sfida con il dinamismo delle condizioni ambientali specifiche del luogo, con un background di secoli di sperimentazioni e di test sulla sicurezza dei prodotti agricoli così sviluppati, rappresentano un archivio scientifico teorico-pratico molto spesso snobbato dal sistema accademico o, al contrario, saccheggiato spudoratamente per reperire gli elementi base della creatività della natura (la cosiddetta “biopirateria”).
Una delle ricadute più preoccupanti dell’industrializzazione dell’agricoltura è l’estinzione non solo di numerose specie vegetali ed animali, ma anche di comunità e di culture con effetti sociali devastanti ed irreversibili.
Secondo il prof. Altieri lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile (ambientalmente sana, culturalmente accettabile, socialmente giusta, economicamente valida) presuppone quattro elementi fondamentali: organizzazione delle risorse locali, diversificazione degli agroecosistemi, partecipazione sociale e (least but not last) la costruzione del capitale umano (empowerment).


Conclusioni

Il futuro della biodiversità è in fondo il nostro futuro di individui in un mondo globalizzato e la sua difesa, in molti Paesi non solo del cosiddetto Terzo Mondo, rappresenta un baluardo contro i monopoli economici che mettono in pericolo il reale esercizio dei principi democratici.
Lo sviluppo tecnologico e l’espansione globale dei mercati non ha ancora risolto il nodo del soddisfacimento quantitativo di cibo per tutti gli abitanti del pianeta (esulando questo problema, probabilmente, dalle finalità che il mondo economico si pone), portando peraltro nuove questioni etiche sugli aspetti qualitativi della produzione di alimenti (bioproteine; “mucca pazza”; contaminazione dei cibi; biotecnologie).
Queste vicende hanno dimostrato la oramai irrinunciabile necessità di integrare l’immensa mole di informazioni scientifiche a nostra disposizione nei vari campi del sapere per cercare di trovare una soluzione condivisibile ai problemi posti dalla parcellizzazione delle conoscenze (F. Manzione, 2001).
I problemi etici spesso nascono quando riportiamo l’uomo al centro delle riflessioni sulla qualità della nostra vita, ovvero quando l’evolversi inarrestabile delle conoscenze si scontra con l’impreparazione culturale umana a riconoscere ciò che è utile all’evoluzione del genere umano e ciò che invece può essere dannoso.


Bibliografia

F. Manzione (2001): The fundamental human right to food. Third Congress of the European Society for Agricultural and Food Ethics - EurSafe 2001. Firenze, 3-5 ottobre 2001
AA.VV (2001): EC-sponsored Research on Safety of Genetically Modified Organisms - A Review of Results. Indirizzo sito web: http://europa.eu.int/comm/research/quality-of-life/gmo/index.html
AA.VV. (2001): OGM - Una risorsa per il futuro. Le Scienze Dossier . Numero 10 - Inverno 2001
M. Delledonne, N. Borzi (a cura di) (2002): Biotecnologie in agricoltura. Realtà, sicurezza e futuro”. Federchimica - Assobiotec.
The Royal Society (2002): Genetically modified plants for food use and human health - an update.
Policy document 4/02 February 2002. Indirizzo sito web: www.royalsoc.ac.uk
J-P. Berlan (a cura di) (2001): La guerra al vivente - Organismi geneticamente modificati e altre mistificazioni scientifiche. Bollati Boringhieri.
D. Marchetti (2001): Vita e morte degli OGM. Calderini Edagricole.
Commissione europea (2002): Una relazione sugli alimenti GM invita a perfezionare il metodo di valutazione della sicurezza. Cordis Focus, n. 190
M.A. Altieri (2002): Indirizzo sito web: www.cnr.berkeley.edu/agroeco3


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